Il lavoro è l’altro tema cruciale da affrontare nel post-pandemia, oltre all’emergenza climatica. Anche in questo caso non si può semplicemente tornare alla situazione pre-Covid 19, visto che in tutto il mondo le persone occupate stavano lavorando sempre più ore, per avere salari più bassi e con meno sicurezza di reddito nel medio e lungo termine. L’esatto contrario di quanto abbiamo cercato si spiegare con questo articolo: Ridurre l’orario di lavoro per dare una mano al pianeta. E allora, per affrontare seriamente anche questo enorme problema, bisogna creare delle alternative che possano permettere alle persone in cerca di occupazione, soprattutto i giovani, di non essere risucchiati nell’infernale meccanismo del lavoro precario con contratti “a zero ore”, di apprendistato e comunque a tempo determinato: per non parlare poi dell’abisso del lavoro nero gestito dai “caporali”.
Ma non occorre raccontare un’altra storia per confutare le teorie economiche che ci hanno portato a questa disastrosa situazione. Tipo quella che è stata spacciata recentemente ancora una volta da un certo Donald Trump, con la quale si sosteneva che i nuovi posti di lavoro si creano con salari bassi per i lavoratori, agevolazioni fiscali alle grandi imprese e abbassamento delle tasse ai già ricchi come lui. Oppure continuare a credere alla fesseria del “meno Stato, più Mercato” dall’ex Primo Ministro del Regno Unito Margaret Thatcher e dal suo emulo Ronald Reagan, con le privatizzazione ad ogni costo anche dei servizi essenziali (acqua, salute, istruzione, etc.). Fesseria che con l’ideologia neo-liberista, con la leva della finanza speculativa di fatto ha imposto a livello globale le politiche neo-coloniali tutt’oggi in vigore. Anche in questo caso basta verificare come in giro per il mondo stanno sorgendo tante nuove forme di imprenditorialità che hanno avuto successo e che intenzionalmente sono state fondate “a monte” sulla condivisione sia del lavoro che dei suoi risultati. Tutto si basa sul superamento del confine tra produttore e consumatore o tra chi eroga un servizio e chi lo utilizza, puntando a creare posti di lavoro sostenibili sia sotto il profilo sociale che quello ambientale, attraverso cooperative di proprietà dei lavoratori.
Una delle esperienze più importanti che si può facilmente rintracciare in rete è sicuramente quella dei Fab Labs (laboratori di fabbricazione), che possono essere definiti come “sistemi di produzione tra pari per la creazione e l’utilizzo di beni comuni”. Attualmente se ne contano quasi 700 sparsi in 65 paesi del mondo. L’idea iniziale è venuta al Prof. Neil Gershenfeld, Direttore del “Center of bits and atoms” del prestigioso Massachusetts Institute of Technology (MIT), quasi 20 anni fa, durante una visita in India. Presso l’Istituto per l’Educazione “Vigyan Ashram” (Vigyan significa “Ricerca della verità” e Ashram simboleggia uno stile di vita semplice e un pensiero elevato), in una stanza di appena 14 metri quadrati, è stato creato il cosiddetto “Fab Lab zero” per risolvere problemi produttivi che interessavano soprattutto le popolazioni rurali, attraverso l’utilizzo di materiali a basso costo e di tradizionali strumenti di lavoro. Piuttosto che affidarsi a soluzioni preconfezionate dal sistema industriale e che non si risultavano adeguate alle esigenze locali, nel primo Fab Lab sperimentale del MIT i promotori hanno pensato bene di realizzare in proprio gli strumenti e le macchine innovative, ricorrendo ad un modello di “produzione collaborativa”.
I progetti iniziali del laboratorio sono e restano “aperti” con la condivisione di prototipi che vengono testati sia localmente che all’interno della comunità dei Fab Labs, fino ad arrivare al progetto definitivo che poi può essere realizzato in tutto il mondo, persino in modo “personalizzato.” Un esempio si vede nella foto qui a destra che mostra un essiccatore solare a cupola utilizzato da gruppi di auto-aiuto di donne per conservare in modo ottimale i cereali raccolti dal campo. In questo modo si realizza un flusso economico costante che poi viene redistribuito sotto forma di reddito tra tutti i partecipanti ai progetti e di incentivi alla comunità locale.
Le società “holding” di solito richiamano l’immagine di grandi corporations che dal loro nascondiglio nei paradisi fiscali manovrano tutta l’economia mondiale. Ma cosa succede se qualcuno si mette in testa di crearne una alla luce del sole e senza scopo di lucro? La holding Evergreen Cooperatives, che ha sede a Cleveland (Ohio, USA) è un gruppo di cooperative interconnesse di proprietà dei lavoratori che sono costantemente impegnate nella creazione di nuovi posti di lavoro locali, sostenibili, “verdi” e democratici. L’iniziativa è stata creata nel 2008 dalla Cleveland Foundation sulla base di esperienze avviate in quella regione sulla parità razziale già dal 1967. Due in particolare, la “Hough Area Development Cooperation” e il “Target City Project” del Congress of Racial Equality hanno creato cooperative di lavoratori e imprese di proprietà della comunità per i residenti nell’area. Una esperienza simile si è poi avviata nel 1977 con il brusco licenziamento di 5.000 operai dell’acciaieria “Youngstown Sheet and Tube”. I lavoratori e le comunità locali storicamente emarginate (soprattutto afro-americani), nel tentativo di fermare i licenziamenti, hanno tentato di acquistare la fabbrica e di controllarla da soli. Sebbene il tentativo sia fallito, l’esperienza ha dato origine all’idea dell’autogestione delle industrie da parte di chi ci ha sempre lavorato e intende ancora lavorarci. Le attività delle cooperative includono una lavanderia industriale eco-compatibile, un’azienda di installazione di pannelli solari, un’altra azienda per il miglioramento energetico degli edifici e una serra commerciale di grandi dimensioni. La struttura cooperativa collegata ha permesso approcci innovativi per creare forza lavoro legata allo sviluppo del quartiere, compreso un programma di acquisto di case che ha aiutato una parte sostanziale dei lavoratori-proprietari di Evergreen a diventare proprietari di case. La holding cooperativa no profit oggi ha oltre 100 dipendenti e realizza un fatturato annuo che supera i 6 milioni di dollari. Evergreen dunque non è più una fantasia utopica o un’attività marginale di nicchia, ma un approccio fattibile per combattere la disuguaglianza economica e sociale.
Altro esempio di imprenditorialità alternativa ai vecchi sistemi sono le “piattaforme di cooperazione”, nate essenzialmente per contrastare lo sconvolgimento del mercato locale con le iniziative Uber e Airbnb. In sostanza sono delle piattaforme digitali create con app e siti web che offrono alternative di trasporto e comunicazioni, in modo trasparente e democratico, a tutela del lavoro e della ricchezza della comunità locale. Tra le iniziative di successo ci sono: la canadese Modo, una cooperativa di car sharing con sede a Vancouver, l’americana Stocksy United, una cooperativa di proprietà di artisti che vende stock di fotografie online, e la Green Taxi Cooperative di Denver, in Colorado, che utilizza solo taxi di proprietà degli autisti, che poi sono anche proprietari dell’azienda che li gestisce. Su questa tematica cosi importante torneremo a parlarne prossimamente su questo sito con altri esempi molto interessanti.
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