In un brevissimo lasso di tempo, tre secoli, le attività umane hanno raddoppiato l’anidride carbonica presente nell’atmosfera. I decisori politici però se la stanno prendendo (molto) comoda, nell’affrontare la situazione. Questa “comodità” dura da sempre e pare che sarà la regola principale che verrà seguita anche nel prossimo vertice sul clima di Glasgow (COP26), anche se la situazione precipita di giorno in giorno e servono scelte urgenti. Nell’epoca pre-industriale la concentrazione variava tra un minimo di 150 ppm (parti per milione) ad un massimo di 250-300 ppm: questi picchi corrispondevano alternativamente alle ere di glaciazione e di relativo riscaldamento del pianeta. La stragrande maggioranza degli scienziati onesti (non quelli al soldo dei poteri economici negazionisti legati ai combustibili fossili) è concorde nel ritenere che la concentrazione limite oltre la quale potrebbero determinarsi effetti irreversibili per il nostro clima (uno per tutti la scomparsa dei ghiacciai su tutto il globo) è fissata tra 430 e 440 ppm di CO2, con un aumento della temperatura media di “appena” 2 gradi. Oggi siamo a circa 420 ppm e stiamo continuiamo ad immetterne annualmente in media 28 miliardi di tonnellate; in pratica stiamo aumentando la concentrazione di CO2 di 2 ppm all’anno. Al ritmo attuale quindi la concentrazione che determinerà l’iniziale irreversibilità verrà raggiunta entro i prossimi 10 anni. Questo è il vero motivo per il quale i nostri giovani, con Greta Thunberg e Vanessa Nakate in testa, stanno chiedendo a gran voce alla politica di passare ai fatti e di smetterla di fare solo promesse. Non c’è più tempo da perdere e non ci sono più scuse da accampare per determinare altri ritardi: il tempo è ormai scaduto! Almeno questa volta però il mondo intero potrà rendersi conto in anticipo di chi sono i veri responsabili di questa ennesima catastrofe annunciata (economica, ecologica e umanitaria). In attesa che accada anche al pianeta, intanto rinfreschiamoci la memoria.
Le discussioni scientifiche sul tema erano già terminate trenta anni fa con la prima Conferenza di Rio De Janeiro, in Brasile (il cosiddetto “Summit della Terra” del 1992). Il più importante risultato di quel primo incontro politico planetario, al quale parteciparono 172 governi nazionali e con la presenza personale di 108 capi dello Stato o di governo, fu l’accordo sulla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. All’appuntamento si presentarono anche 2.400 organizzazioni nazionali e 17.000 persone che avevano aderito al contemporaneo Forum delle Organizzazioni Non Governative (ONG): soprattutto tra coloro che erano già abituati ad affrontare le emergenze climatico-ambientali, economiche e umanitarie che stavano per esplodere a livello globale, c’era già una diffusa diffidenza sul fatto che i risultati e le decisioni di quel Summit sarebbero andati nella direzione giusta. Non a caso il Forum delle ONG produsse un documento molto sintetico, la “Carta della Terra”, nel quale si indicavano con precisione le soluzioni politiche da assumere. Già in quell’occasione ci fu l’intervento di una giovane ragazza di appena 12 anni, Severn Cullis Suzuky, che quando frequentava ancora la scuola elementare a Vancouver (Canada), aveva fondato l’Environmental children’s organisation (Eco), un gruppo di bambini dedito a sensibilizzare i propri coetanei alle problematiche ambientali. Il suo intervento al Summit di Rio ammutolì le delegazioni di tutti i paesi (ci furono 5 minuti di imbarazzato silenzio dopo il suo intervento), ma poi la conferenza ufficiale produsse solo il primo, generico accordo sulla Convenzione quadro su indicata. In sostanza si demandavano le decisioni a quello che poi sarebbe diventato il Protocollo di Kioto: di fatto l’accordo di Rio De Janeiro fu la prima mossa politica per prendere tempo, con un esplicito tradimento verso le attese delle future generazioni. Questo protocollo ha poi visto la luce in data 11 dicembre 1997, con il nuovo incontro politico planetario siglato “COP3 ” (che sta per “Conference of Parts n. 3”). L’accordo fu firmato nel 1998 anche dagli Stati Uniti d’America (Presidente Bill Clinton) ma non è poi mai stato ratificato proprio dalla nazione che già all’epoca da sola rappresentava un 1/4 di tutte le emissioni globali di CO2 del pianeta.
A distinguersi in questa lotta negazionista sulle evidenze scientifiche già emerse fu il successivo Presidente USA George W. Bush. Uno che tra i suoi finanziatori vantava soprattutto i suoi amici ed ex colleghi petrolieri. Questa posizione negazionista adottata dalla più grande economia mondiale di tutti i tempi è stata un gigantesco “assist” per le altre economie emergenti, quella della Cina in particolare, che proprio con il ricorso alle fonti fossili e alle emissioni di gas serra, in particolare con il carbone, andavano scalando la classifica del maggior incremento del PIL a livello mondiale. L’accordo di Kioto ha previsto che proprio Cina, India e Brasile, pur avendo una crescita economica molto intensa, restavano esenti dagli obblighi dell’accordo stesso sulle emissioni. Il Protocollo di Kioto è entrato in vigore solo nel febbraio del 2005 con la ratifica avvenuta da parte della Russia e del Canada (che poi è stato il primo paese ad uscirne), ma di fatto non ha prodotto alcun risultato concreto. Ancora oggi USA e Cina costituiscono più del 50% delle emissioni di CO2 a livello globale. Anche in quel caso la soluzione fu trovata comunque dalla politica nel ricorrere ad un’altra perdita di tempo.
Con l’amministrazione di Barak Obama gli USA hanno tentato di uscire dall’angolo in cui li aveva cacciati la lobby dei petrolieri. Lobby che intanto aveva inventato anche la nuova bufala produttiva interna agli USA con il metodo “fracking”: l’ottenimento di petrolio e gas metano con la frantumazione di rocce schisto-bitumose. L’accordo di Parigi è stato firmato nel dicembre 2015 e porta la sigla COP21. E’ entrato in vigore però solo il 4 novembre 2016 perché nel frattempo doveva essere ratificato da almeno 55 paesi firmatari che rappresentavano il 55% delle emissioni globali di gas serra. L’entrata in vigore dell’accordo sarebbe scattato 30 giorni dopo le adesioni per il superamento di quella soglia minima e il Presidente Obama, forse come ultimo atto della sua Presidenza, si prese questa responsabilità. Ma nel frattempo ci furono anche le nuove elezioni presidenziali USA che hanno portato al potere il Signor Donald Trump: uno che, già in campagna elettorale e sempre con l’appoggio dei suoi amici petrolieri, aveva annunciato che da quell’accordo di Parigi sarebbe uscito appena eletto: detto fatto. L’uscita però non può avvenire prima di tre anni dalla ratifica e scatta solo dopo un preavviso di almeno 12 mesi dalla comunicazione all’ONU: totale 4 anni.
Periodo nel quale comunque il Signor Trump ha avuto modo di esibire al mondo intero la sua nullità politica in difesa delle lobby che lo avevano spinto al potere: con l’arrivo alla Presidenza degli Usa di Joe Biden l’accordo di Parigi è stato riconfermato. Nel frattempo però si è perso altro preziosissimo tempo e l’altro grande emettitore di C02, la Cina, ha continuato ad usare massicchiamente le fonti fossili, il carbone in particolare, per la sua ascesa al ruolo di leder mondiale di questa economia malata e insostenibile. L’incontro mondiale che si terrà a Glasgow tra un mese porta la sigla “COP26”: come a dire che con i precedenti 25 summit mondiali ancora non si è concluso niente di definitivo. Greta Thumberg, Vanessa Nakate e tutti i ragazzi dei Fridays For Future hanno ragione da vendere nell’affermare che è ormai scaduto il tempo delle promesse: la quota di 430-440 ppm di CO2 nell’atmosfera è ormai una realtà. Anche per via del fatto che gli accordi internazionali li prendono i governi in carica, ma poi a determinare la maggior parte delle emissioni che aumentano la febbre del pianeta, sono sempre le stesse lobby: i soliti “noti” che con i loro sporchi affari finanziano le campagne elettorali dei presunti decisori politici. Ne riparleremo a breve su questo blog.
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