Il problema della resistenza ai farmaci antibiotici è una delle tante minacce globali della nostra epoca. Circa sette anni fa l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha pubblicato un rapporto dove si dimostrava la gravità della minaccia, denunciando anche il fatto che stavano tornando a morire persone interessate da infezioni comuni e lesioni minori: problemi sanitari non acuti quindi, che negli ultimi decenni erano stati curati proprio con gli antibiotici. Da allora la stessa OMS ha lanciato l’allarme per evitare una “era post-antibiotica”. Il fenomeno è noto da tempo ed è del tutto simile a quello che è avvenuto in agricoltura con l’uso intensivo dei fitofarmaci e degli antiparassitari di origine chimica. Ogni volta che si effettua un trattamento su una coltura agricola, è rarissimo il caso in cui tutta la popolazione bersaglio viene eliminata. A restare decimati sono sempre anche gli antagonisti naturali dei parassiti delle nostre colture. Gli individui che sopravvivono al trattamento quindi risultano essere i più forti che cosi si trovano anche il doppio vantaggio di avere molto più cibo a disposizione con l’eliminazione dei loro competitori nutrizionali e di potersi riprodurre più facilmente a causa dell’assenza dei loro predatori. Con gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM) il problema si è aggravato.
Allo stesso modo la resistenza antimicrobica si verifica quando i batteri che una volta rispondevano a trattamenti con gli antibiotici, nel tempo accumulano una resistenza che poi trasmettono alla generazione successiva. Aumentando la dose del trattamento, non si fa altro che creare dei “superbatteri” sempre più resistenti, che a loro volta rendono le infezioni più aggressive ed inefficaci i relativi interventi terapeutici. Il problema si sta aggravando soprattutto in ambito ospedaliero, con conseguenze sempre più incerte per gli esiti delle cure. Logico quindi che la ricerca scientifica si stia prodigando alacremente a livello globale per trovare delle soluzioni efficaci, praticabili e riproducibili su scala industriale.
Il filone di ricerca che fin dall’inizio si è rivelato tra i più promettenti è lo studio delle proprietà antibiotiche del latte materno dei mammiferi. Quanto sia importante l’allattamento al seno della madre per gli esseri umani, lo si è capito bene dopo che tale pratica era stata sostituita per un certo periodo di tempo con mezzi artificiali (biberon e latte in polvere). La sostituzione, grazie a imponenti campagne pubblicitarie, era avvenuta essenzialmente per soddisfare i fini commerciali messi in campo dalle aziende produttrici, ma poi si è scoperto che dal punto di vista nutrizionale e sanitario gli svantaggi erano molto maggiori dei vantaggi. Successivamente si sono riscontrate le medesime proprietà preventive anche con il latte bovino, con quello delle capre e persino con quello delle asine. Di fatto il latte di tutti i mammiferi hanno le loro specifiche capacità antibiotiche. Andarle ad identificare una per una per tirarne fuori un farmaco di facile uso e da ottenere con semplici processi produttivi, è risultata un’impresa impraticabile.
Senonché in natura ci sono dei mammiferi, la famiglia dei monotremi, che non dispongono di ghiandole mammarie e che riproducono la loro prole deponendo le uova. I monotremi sono gli unici mammiferi che iniziano le prime fasi del loro sviluppo in un piccolo uovo esterno (della circonferenza di circa 15 millimetri) coperto da un morbido guscio coriaceo, che viene incubato all’esterno dal corpo della madre. La curiosità scientifica, in particolare, si è rivolta verso l’ornitorinco dal becco d’anatra (Ornithorhynchus anatinus): un buffo animale acquatico che ha una coda come quella di un castoro e che vive in Australia. Questo animale adotta una particolare strategia di lattazione. Non avendo le mammelle, le femmine alimentano i loro piccoli facendo uscire il latte dalla pancia come se fosse una sorta di sudore. I cuccioli quindi, ingerendo il latte che viene leccato direttamente dalla pancia della madre, vengono esposti ad un forte rischio di ingerire anche pericolosi patogeni. Attratti da questa curiosità i ricercatori hanno poi scoperto che nel latte dell’ornitorinco sono presenti alte concentrazioni di una proteina che ha delle particolari proprietà antibatteriche. Sono proprietà particolari perché a quanto pare esistono solo nel latte dei monotremi e non nelle altre specie di mammiferi. Questa proteina, in pratica, determina un’azione di protezione preventiva nello sviluppo dei giovani allattati. Da qui l’idea nata spontaneamente tra i ricercatori australiani di verificare se c’era la possibilità di riprodurla in laboratorio e di creare una nuova composizione farmacologica in grado di combattere i superbatteri: quindi un vero e proprio farmaco “salva vita”.
Le prove hanno avuto esito positivo e a causa della particolarità della sua struttura a forma di capelli ricci (una cosa mai vista in passato), gli scienziati hanno deciso di chiamare questa proteina “Shirley Temple”, in omaggio alla capigliatura della famosa attrice-bambina. La scoperta quindi conferma ulteriormente l’importanza delle strutture proteiche del latte materno. Latte che oltre ad essere ricco di sostanze nutritive permette alle madri di proteggere i piccoli anche da pericolosi patogeni. Si è aperta di conseguenza una strada ispirata dalla biologia evolutiva, che sta portando le sperimentazioni verso nuove composizioni farmacologiche da utilizzare nelle future terapie contro la resistenza agli antibiotici. Come a dire che non si finirà mai di imparare dalla Natura.