Una piccola contadina peruviana analfabeta, madre di quattro figli, ha vinto quello che molti considerano il ‘Nobel’ per l’ambiente. È la donna ritratta in questa foto di apertura e può essere considerata il leader mondiale delle battaglie contro l’accaparramento delle terre da parte delle multinazionali minerarie. Cioè delle lotte spontanee e delle azioni che stanno diventando sempre più frequenti a livello mondiale in favore dei beni comuni: cibo, acqua, istruzione, trasporti, energia e salute. Molte comunità, partecipando alle questioni che le riguardano, stanno diventando capaci di difendere la propria terra e la propria cultura, impedendo anche lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Insieme a lei sono stati premiati quattro anni fa altre cinque persone comuni, tutte con storie di battaglie vinte, nonostante che i rapporti di forza all’inizio fossero completamente a loro sfavore.
Il riconoscimento è stato assegnato dalla fondazione americana Goldman Environmental che da anni premia coloro che nel mondo, con le proprie iniziative, portate avanti sempre con grande rischio personale per se stessi e le loro famiglie, sono riusciti a proteggere e a migliorare le condizioni sociali delle comunità e dell’ambiente naturale in cui vivono. Ecco le loro storie.
Máxima Acuña Chaupe, un metro e mezzo di altezza, con tanti sacrifici nel 1994 aveva comprato un appezzamento di quasi 25 ettari insieme a suo marito, nella regione del Tragadero Grande: un angolo remoto situato negli altipiani a nord del Perù. La loro vita procedeva tranquilla, quando nel 2011 qualcuno venne a bussare alla loro porta dicendo che dovevano lasciare quella terra, con le sue splendide e utilissime lagune.
I proprietari della più grande miniera di oro e rame dell’America Latina, confinante con la loro proprietà, le dissero che quella medesima terra l’avevano comprata loro e che lei l’aveva occupata abusivamente: per questo se ne doveva andare. Per farle capire come stavano le cose, le avevano anche distrutto i raccolti più d’una volta. Ma lei, nonostante una sentenza sfavorevole in primo grado e una multa impossibile da pagare, non si è mai data per vinta. È stata sostenuta dalla comunità locale e a livello mondiale da numerose organizzazioni per i diritti umani. La sentenza è stata ribaltata e oggi la multinazionale mineraria ha dovuto sospendere tutti i suoi progetti di ampliamento.
Destiny Watford invece è una giovane ragazza di colore che vive in un quartiere di Baltimora, nello stato del Maryland, negli USA: una città altamente industrializzata e caratterizzata da raffinerie di petrolio, impianti chimici e di depurazione e altre strutture che emettono tante sostanze inquinanti.
La percentuale dei casi di asma e cancro ai polmoni tra gli abitanti è in assoluto tra le più alte nelle città americane. Un giorno del 2010 la ragazza è venuta a sapere che l’amministrazione cittadina aveva autorizzato la realizzazione del più grande inceneritore di rifiuti d’America proprio vicino alla sua scuola. Destiny e i suoi compagni hanno iniziato così ad organizzare manifestazioni e petizioni contro quel progetto.
Accolti inizialmente da molto scetticismo, sono poi riusciti a scoprire che proprio la dirigenza della loro scuola aveva firmato un contratto d’acquisto dell’energia che avrebbe prodotto l’inceneritore. Vistosi scoperto, il Consiglio scolastico è stato costretto ad annullare quel contratto.
L’azienda che aveva proposto l’impianto brucia-rifiuti ha infine dovuto rinunciare al progetto, perché anche altri clienti hanno deciso di annullare a loro volta i contratti.
Alimentato dalla corruzione, in Cambogia è molto diffuso il disboscamento illegale delle foreste: una risorsa vitale per la stragrande maggioranza della popolazione. Tagliano soprattutto alberi da cui si ottiene legname pregiato, il palissandro in particolare, contrabbandato in Cina per la realizzazione di mobili di lusso: un vero e proprio “status symbol” per la classe medio-alta del Paese più popoloso al mondo. Fin da ragazzo Leng Ouch, nato da una famiglia sfrattata dalla sua terra, aveva scelto di studiare giurisprudenza e di collaborare con diverse organizzazioni internazionali per i diritti umani. Organizzazioni da sempre schierate contro gli abusi del governo cambogiano che rilasciava false concessioni di coltivazione della terra, ma che in realtà nascondevano disboscamenti illegali.
L’attivista ha dovuto nascondersi molte volte, mentre la sua famiglia è stata intimidita ripetutamente dalla polizia militare. Le sue battaglie, però, insieme alla crescente pressione della comunità internazionale e all’aumento esponenziale del malcontento tra la popolazione cambogiana, hanno costretto alcuni anni fa il governo cambogiano a ritirare 23 concessioni di terra corrispondenti a quasi 90mila ettari (circa 125mila campi da calcio).
Le comunità del popolo Masai, composte soprattutto da pastori e cacciatori-raccoglitori, nel nord della Tanzania, in Africa, hanno sempre vissuto in modo “ecosostenibile”, spostando le loro greggi a seconda delle stagioni e seguendo le migrazioni della fauna selvatica, facendo attenzione a non sfruttare eccessivamente i beni comuni e la Natura. Ma a partire dal 1950, con l’istituzione dei grandi parchi nazionali e la creazione di un’industria turistica legata ai safari e alla caccia riservata, gli indigeni erano diventati dei veri e propri “rifugiati della conservazione” della Natura. In una di queste realtà è nato e cresciuto Edward Loure che, grazie ai sacrifici della sua comunità, è riuscito ad arrivare alla laurea in Gestione e amministrazione delle risorse locali.
Edward ha sviluppato un modello di organizzazione collettiva, con tanto di statuto e piani di gestione, che permette alle comunità di restare in possesso delle loro terre grazie al principio della indivisibilità: una risorsa che è indispensabile per tutti non può essere di proprietà di nessuno, neanche dello Stato. In tal modo, due anni fa il governo della Tanzania ha deciso di proteggere un territorio di 200mila acri (oltre 80mila ettari) che oggi garantisce la sopravvivenza e lo stile di vita del popolo Masai, anche con la creazione di un altro tipo di turismo: quello che rispetta i luoghi, le tradizioni e la cultura delle popolazioni locali.
La protezione di una specie rara e in via di estinzione, la tartaruga liuto (Dermochelys coriacea), è stato l’obiettivo raggiunto da Luis Jorge Rivera Herrera, un attivista portoricano che ha condotto una campagna per l’istituzione di un’apposita riserva naturale in una zona incontaminata, che stava per essere devastata dall’ennesima mega-speculazione edilizia. Il luogo, che è caratterizzato da un vero e proprio corridoio biologico di altissimo pregio paesaggistico, è di fondamentale importanza per questo tipo di tartarughe, perché istintivamente l’hanno scelto da sempre per il deposito delle loro uova.
Alla fine del 1990, però, con la solita promessa di rivitalizzare l’economia della zona, un gruppo di costruttori aveva chiesto ed ottenuto il permesso di realizzarvi un mega albergo composto da 3.500 camere e altre unità residenziali, gli immancabili campi da golf, un centro commerciale e le relative cementificazioni di corredo. Dopo 16 anni di battaglie e cinque governatori succedutisi a Porto Rico, Luis Jorge e i suoi colleghi sono riusciti a far istituire una riserva naturale, che garantirà la sopravvivenza delle tartarughe e consentirà lo sviluppo dell’ecoturismo in quel Paese.
Donna avvocato e madre di due figli, Zuzana Caputova ha guidato con successo una campagna per far chiudere una discarica di rifiuti tossico-nocivi che stava avvelenando la terra, l’aria e l’acqua della sua comunità nella città di Pezinok, in Slovacchia.
Il luogo è molto particolare, perché, pur trovandosi una regione relativamente fredda, è caratterizzato dalla coltivazione di vigneti di alto pregio. Il tipico castello centro-europeo e i numerosi musei sempre aperti attirano molti turisti che così arrivano a conoscere e apprezzare i vini storici della zona.
Qualche decina d’anni fa, però, quando vigeva ancora il regime comunista, senza permessi e misure di salvaguardia, qualcuno decise di realizzare vicino la città una delle più grandi discariche di sostanze chimiche e tossiche provenienti anche da altri Paesi dell’Europa occidentale: il luogo si trovava a poche centinaia di metri da una zona residenziale. Negli ultimi anni era stato progettato persino il raddoppio della discarica, anche se la città aveva una percentuale di leucemie otto volte più alta del resto della Slovacchia.
A seguito delle sue battaglie, nel 2013 la Corte Suprema slovacca, ribadendo che è diritto dei cittadini partecipare alle decisioni che hanno un impatto diretto sulla loro vita (norma garantita dal Trattato dell’Unione Europea), ha sentenziato che la nuova discarica era illegale, ordinando l’immediato ritiro dell’autorizzazione: quella stessa autorizzazione che le autorità locali insistevano a dichiarare legittima. La vecchia discarica è stata chiusa ed ora dovrà essere bonificata a spese dei gestori.
Tutte queste esperienze dimostrano che si può vincere nella interminabile lotta contro i progetti di sviluppo distruttivo, proponendo in alternativa progetti basati sulla sostenibilità economica ed ecologica e che sono riusciti a modificare le politiche ambientali e sociali sbagliate dei loro governi.