Oggi tutto quello che consumiamo è diventato improvvisamente ecologico e viene presentato dalla pubblicità dagli stessi produttori di sempre come naturale, eco-compatibile, biologico e rispettoso degli ecosistemi. Pochissime persone hanno la voglia, o anche solo il tempo, per andare a verificare se il messaggio pubblicitario così aggiornato corrisponde alla verità o se per caso non si tratti dell’ennesima operazione di “greenwashing”, cioè di un’ecologismo di facciata ammantato di un verde in realtà inesistente. Ma non si tratta solo di una questione di furbizia e opportunismo commerciale perché, seguendo la tendenza alla moda, questo fenomeno è sempre di più agevolato dal sistematico favoritismo concesso da una legislazione a dir poco carente e dalla totale assenza di controlli: due grandi disfunzioni istituzionali che quasi determinano una istigazione alla frode. In pratica i consumatori non possono far altro che affidarsi all’onestà e alla trasparenza dei produttori, sperando nella buona sorte. Il mondo dell’informazione però può giocare un ruolo determinate in tal senso, ma solo in minima parte riesce a farlo. Parliamo, come al solito in questo sito, con gli esempi.
Negli allevamenti intensivi gli animali sono ammassati, confinati e stressati dentro spazi stretti e chiusi, ma da tempo negli USA è stato certificato legalmente un latte “biologico” semplicemente perché il governo consentiva alle aziende di scrivere sulle etichette che le mucche potevano avere “accesso all’aria aperta”. Questa però era solo una possibilità teorica perché non era detto che gli animali all’aperto ci andassero per davvero a pascolare, almeno per qualche ora al giorno oppure di tanto in tanto, sia per mangiare erba fresca (invece dei soliti mangimi industriali – magari fatti di farine di soia OGM) che per poi starsene tranquille a ruminare all’ombra di una pianta. Solo una documentata inchiesta del quotidiano Washington Post, relativa a un presunto caseificio biologico del Colorado che aveva in allevamento 15mila mucche, ha svelato al pubblico il grande inganno. Il giornalista Peter Whoriskey nel 2016 ha eseguito otto diversi sopralluoghi presso i terreni di proprieta di quest’azienda, notando ogni volta che di animali intenti a brucare l’erba non ce n’era neanche uno: le immagini satellitari verificate in vari periodi dell’anno confermavano quella strana assenza.
L’azienda interessata (la Aurora Dairy) ha cercato in un primo tempo di minimizzare il fatto affermando che il giornalista era stato semplicemente sfortunato: si era recato sul posto quando le mucche erano già rientrate in stalla per la mungitura per i vari interventi di accudimento e pertanto l’occasionalità dei suoi rilievi non dimostrava un bel nulla. Senonché il giornalista si era già procurato una informazione di riserva. Nei giorni in cui aveva effettuato i sopralluoghi aveva anche comprato presso i supermercati locali il latte fresco e “biologico” prodotto da quell’azienda il medesimo giorno. Ha così fatto testare i principali grassi contenuti nel latte e dalle analisi è venuto fuori un profilo nutrizionale che era molto più vicino al latte convenzionale piuttosto che a quello effettivamente biologico.
Normalmente il latte ottenuto da mucche che si alimentano con erba fresca tende ad essere più ricco di grassi benefici come l’acido lineolico coniugato e gli acidi grassi omega-3. Invece il latte convenzionale è più ricco di grassi omega-6, che sono più abbondanti nei cereali per mangimi. La polemica che nè derivata ha dato modo al mondo scientifico di intervenire per creare una procedura di analisi inattaccabile e poco costosa: individuare e certificare le tracce persistenti nel latte della clorofilla che le mucche metabolizzano dopo aver mangiato erba. Quando viene esposto alla luce di una certa frequenza il latte ottenuto dall’erba fresca (non dal fieno – per intenderci), restituisce un segnale luminoso facilmente rilevabile e codificabile. Quello ottenuto solo con i mangimi di cereali (OGM a parte) restituisce invece un segnale luminoso diverso. L’inchiesta giornalistica del Washington Post, in sostanza, ha svelato la vera verità e smascherato allo stesso tempo qualcosa di verosimile ad una verità indimostrabile: l’esatto contrario di ciò che avviene quotidianamente con le “fake news”.
Il meccanismo dei crediti di carbonio, passando ad un altro esempio, permette e giustifica le grandi aziende/multinazionali di compensare le proprie emissioni inquinanti in cambio del finanziamento, con una parte minima dei propri profitti, di alcune attività di rimboschimento e di compensazione delle proprie emissioni in qualche altra parte del pianeta. Il messanismo essenzialmnte potrebbe essere considerato molto virtuoso se la strada intrapresa conducesse effettivamente all’azzeramento delle emissioni inquinanti in un arco di tempo definito per tutte le parti contraenti un impegno chiaro, preciso e condivisibile. Nella realtà dei fatti però si assiste a situazioni dove lo scopo finale non è altro che continuare a fidelizzare i clienti che già utilizzano e cosumano i propri prodotti e servizi. Per favorire questo “mercato delle emissioni” sono nate strutture di commercilizzazione finanziaria, tipo la Chicago Cimate Exchange (USA), che però rientrano più nella categoria del “greenwashing” che dell’effettiva transizione ecologica dell’economia. Per essere chiari: il fatto di comprare il rimboschimento in una qualsiasi zona della Terra in cambio della possibilità di continuare a far volare in tutto il mondo aerei privati, magari con a bordo il solo proprietario dell’aereo stesso, i suoi collaboratori e pochi elementi dell’equipaggio, rappresenta intanto un’enorme bugia, se non anche una frode commerciale. Questo tipo di compensazioni, senza contenimento delle emissioni, non servono a nulla.
Che dire poi di quelle situazioni dove, attraverso progetti spacciati per “bioedilizia” viene consentito l’abbattimento di case ed edifici ancora perfettamnte agibili dove vengono permesse demolizioni e ricostruzioni, con ampi vantaggi fiscali, con raddoppi e triplicazioni della cubatura precedentemente realizzata. Basta dolo mettere qualche pannello solare sul tetto, eseguire un modesto interno di coibentazione di pareti e solai, mentre l’obiettivo di realizzare abitazioni che producono la stessa quantità di energia che consumano, resta solo sulla carta. Nella maggior parte dei casi questi interventi vanno a vantaggio delle classi più agiate della popolazione, con i poveri che raccolgono, come sempre, solo le briciole. Eppure sono proprio le abitazioni di questi ultimi che rappresentano dei veri e propri “colabrodi” dell’inefficenza energetica di un’intera nazione. La priorità quindi non viene assegnata a quegli interventi che hanno la maggiore efficacia risolutiva, ma solo per chi ha la possibilità di commissionare e pagare un progetto da presentare all’amministrazione di competenza. La lista degli esempi potrebbero continuare all’infinito (ci torneremo a breve comunque su questo sito). Ci resta solo da annotare, almeno nella fase attuale, che accanto al “greenwashing” si stanno riposizionando i soliti e solidi meccanismi dell “green racket” e del “green clueless” – rispetivamente “verde di affari sporchi” e “verde di affari oscuri”. Qualcosa verniciato di sostenibililità in superficie ma non nella pratica quotidiana e che di fatto si sostituisce a tutti quegli sforzi etici, sinceri e di pura generosità umana, che in tutto il mondo stanno compiendo individui, aziende e società realmente intenzionate a promuovere un futuro sostenible. Questo è l’aspetto che più ci preoccupa.
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