La forestazione urbana offre tanti vantaggi per migliorare la qualità della vita delle persone che vivono in città, permettendo loro allo stesso tempo di dare una mano per mitigare e contrastare i cambiamenti climatici in corso. In assoluto questo tipo di interventi vengono ritenuti lo strumento politico-amministrativo più importante che i Comuni hanno a disposizione per raggiungere l’obiettivo delle città a emissioni zero entro il 2050. Aldilà delle tante parole che si sentono ripetere in giro, soprattutto in questa fase di “conflitto energetico” provocato dalla guerra della Russia contro l’Ucraina, per attivare questi interventi in realtà bisogna affrontare alcuni problemi che stanno a monte. Sono problemi che non stanno tanto nella possibilità di trovare terreni disponibili dove impiantare alberi e arbusti (questi ci sono e anche in grande quantità), ma piuttosto nella loro frammentazione fondiaria e, soprattutto, nello stato di inquinamento/degrado in cui trovano. Molto spesso i siti idonei potrebbero essere anche le aree industriali dismesse che sono collocate all’interno, nelle periferie o nelle vicinanze delle città e di zone urbanizzate. In ogni caso ci si trova di fronte spesso a realtà che hanno bisogno prima di tutto di essere bonificate e solo dopo essere destinate ad usi riqualificanti. E’ un caso tipico questo per il quale nessun esponente della vecchia scuola dell’economia predatoria si sognerebbe di inserire questi interventi nel calcolo del PIL (Prodotto Interno Lordo) di una città o di una nazione, perché i costi di bonifica sarebbero di gran lunga superiori ai vantaggi. Permettendo invece ai sistemi naturali di fare il loro “mestiere” ed utilizzando le NBS più appropriate (Nature Based Solutions – Soluzioni Basate sulla Natura) questo rapporto di calcolo per il PIL, non solo si inverte, ma diventa sempre più vantaggioso in funzione del riutilizzo dei suoli risanati da destinare alla ri-naturazione delle citta con la forestazione urbana e gli orti sociali.
Il fattore più critico è rappresentato dai terreni contaminati da metalli pesanti altamente tossici (arsenico, mercurio, nichel e rame) o da composti organici (gli idrocarburi in generale) e clorurati (tetracloruro di carbonio, tricloroetilene), oltre che dai residui di queste lavorazioni. La bonifica con i metodi classici prevede di solito l’asportazione del suolo contaminato che poi viene trattato con prodotti chimici, fisici, termici o biologici per tentare di estrarre la maggior parte degli inquinanti. Il terreno asportato e trattato poi comunque finisce in altre discariche e di conseguenza all’inquinamento che si era già determinato in passato si aggiunge anche quello indotto dalle tecnologie e dai mezzi meccanici utilizzati per la bonifica. Gli interventi di risanamento basati sui sistemi naturali invece non prevedono nulla di tutto questo perché utilizzano due semplici meccanismi ecologici: 1) la capacità di alcuni tipi di piante di estrarre dal suolo i metalli pesanti e di accumularli nelle radici e nelle foglie (cosiddetta fitoestrazione); 2) l’attivazione di sinergie tra i vegetali e i microrganismi presenti nel suolo, intorno e all’interno delle loro radici, che permettono la biodegradazione dei contaminanti organici (fitodegradazione). In questo modo si rendono disponibili dei nutrienti che, entrando nella catena alimentare complessiva, poi vengono trasformati in sostanze molto più semplici e meno tossiche dagli altri organismi presenti nel terreno.
Questi sistemi di bonifica si stanno rivelando molto promettenti: sia su base sperimentale che con interventi fatti direttamente sul campo, si è già dimostrato che possono essere una valida alternativa ai trattamenti fisici e termici, tanto che sono state individuate alcune specie di alberi e di colture agricole particolarmente efficaci: i salici, i pioppi, il girasole, vari tipi di cavoli e le brassicacee in generale (senape e rape in particolare), il lupino bianco e il mais: ottimi risultati si stanno ottenendo con la coltivazione della canapa per quanto riguarda l’abbinamento di queste tecniche con la fitodepurazione. Tutte le specie selezionate si sono già dimostrate in grado di estrarre ed accumulare nelle radici e nelle foglie quantità significative dei diversi metalli, con efficienze variabili dal 35% al 40% a seconda del metallo considerato. Si sta persino ipotizzando che dopo quattro o cinque cicli stagionali successivi delle colture agricole e dopo pochi anni dal trapianto degli alberi, si può raggiungere il 100% di fitoestrazione della frazione metallica biodisponibile.
Questo straordinario risultato è possibile anche grazie all’azione di ceppi batterici metallo-tolleranti, cioè che possono sopravvivere alla presenza di grandi quantità di metalli nel suolo. Non è stato molto difficile individuare questi ceppi perché di solito si trovano in alcuni degli stessi terreni contaminati: solo che in passato nessun ci faveva caso. Una volta selezionati e moltiplicati in vitro questi microrganismi vengono aggiunti al terreno seminato e coltivato con le diverse piante e colture, permettendo loro di migliorare significativamente le prestazioni vegetazionali, sia come quantità di biomassa prodotta che come resa di fitoestrazione. Nell’arco di una sola stagione quest’ultima è aumentata del 40-50% rispetto alle prove senza microorganismi aggiunti, raggiungendo efficienze fino al 60% della frazione metallica biodisponibile. La biomassa così ottenuta dalle bonifiche può essere utilizzata anche per scopi energetici (ad esempio per la produzione di bio-metano) e addirittura si prevede per il futuro di poter recuperare i metalli bio-estratti per reimmetterli nei cicli produttivi (cosiddetta tecnica del phytomining). Il tutto raggiunendo obiettivi di bonifica molto efficienti, in tempi molto più rapidi rispetto alle tecniche chimico-fisiche tradizionali e con costi di gran lunga inferiori. Il risultato finale è un recupero ambientale efficiente, sostenibile e a costi ridotti rispetto a tutte le tecniche usate fino ad oggi.
A questo punto ci si potrebbe già accontentare del recupero dei terreni contaminati per destinarli alla forestazione, ma nella realtà dei fatti si può fare molto di più. La creazione di nuove aree verdi in città non è solo un fatto urbanistico e paesaggistico, ma può diventare un fattore determinante per ridurre in tempi altrettanto brevi la quantità di gas serra presenti nell’atmosfera, non solo con gli alberi, ma anche con gli orti sociali. Tutte le piante del nostro pianeta, siano esse erbacee e/o arboree (nel calcolo ci sono anche gli arbusti), oltre che di sufficienti apporti idrici, hanno bisogno di un livello minimo di fertilità dei suoli per crescere e compiere il loro ciclo vitale. La fertilità a sua volta è determinata da una combinazione di fattori fisici, chimici e biologici. In estrema sintesi, ogni tipo di terreno viene ritenuto fertile quando nella sua struttura è presente almeno il 3% di sostanza organica umificabile, cioè in grado di trasformarsi prima in humus e poi in elementi nutritivi per le piante e le coltivaziioni, anche in assenza di lavorazioni del terreno: i terreni fertili infatti si riconoscono dal loro colore scuro. Tra questi elementi il più importante è l’azoto, il quale, pur essendo il 79% dell’atmosfera, non può essere utilizzato direttamente dalla maggior parte delle piante terrestri e di conseguenza dagli animali e dagli uomini. Prima serve che speciali esseri viventi, cosiddetti azotofissatori, per l’appunto “fissino” tale elemento e lo immettano nel ciclo della sostanza organica.
Nei suoli non coltivati l’apporto spontaneo di azoto non supera di solito i 3-4 kg ad ettaro l’anno, ma la Natura ha inventato le piante leguminose (fagioli, piselli, fave, favino, ceci, veccia, ecc.) che si sviluppano in diretta simbiosi con i batteri azotofissatori. In tal modo l’azoto apportato ai terreni può arrivare anche 400 kg per ettaro: quanto basta per coltivarci dopo, con il cosiddetto sovescio (l’interramento della coltura fertilizzante prima che vada in fiore), tutto quello che vogliamo per almeno un paio di anni. Lo stesso apporto per via chimica e industriale costa attualmente in media almeno 500 euro ad ettaro: i prezzi sono destinati ad aumentare vertiginosamente proprio a causa della guerra voluta dalla Russia nei confronti dell’Ucraina. Con questi tipi di interventi invece, negli stessi terreni precedentemente inquinati e/o nelle aree adiacenti, non solo avremo tanti alberi che ci permetteranno di respirare aria più pulita e di attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici, ma riusciremo anche ad immagazzinare nel terreno l’anidride carbonica e gli altri inquinanti in eccesso nell’atmosfera sotto forma di sostanza organica umificabile: il migliore degli interventi di fertilizzazione immaginabile e possibile. Ecco quindi un modo completamente opposto e diverso di che cosa debba intendersi per Prodotto Interno Lordo (PIL) nella prospettiva di creare con il lavoro, una ricchezza disponibile per tutti.
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