Imparare il modo in cui i sistemi naturali riescono a scomporre e riutilizzare ogni materia e sostanza sotto forma di nutrienti è il primo passo per entrare nell’era dell’economia circolare. La riduzione e il riutilizzo degli sprechi, che comunque implicano necessariamente una maggiore sobrietà nei nostri stili di vita, hanno una funzione fondamentale nel consumo sostenibile delle risorse del pianeta. Ma non può essere l’unica strategia da adottare. L’esito della transizione che sarà necessario realizzare nei prossimi anni dipende in buona parte dal tempo che occorrerà per creare nuovo valore da ciò che non viene più usato o è diventato inutile/inservibile. In altre parole, creare un vantaggio economico da tutto ciò che oggi è considerato un rifiuto e che costituisce solo una spesa, spesso da mettere a carico della collettività.
Si tratta più che altro di un problema di impostazione “tattica”. I rifiuti non vanno più considerati come qualcosa da eliminare o anche semplicemente da riciclare e riutilizzare. intendiamoci: fare bene e raggiungere percentuali molto alte di raccolta differenziata è importantissimo, ma questa impostazione soffre della cultura in base alla quale i rifiuti sono e restano un problema. Negli ecosistemi naturali invece gli scarti (il concetto di rifiuto non esiste) diventano sempre una risorsa messa a disposizione di altri esseri viventi per essere trasformata in nutrienti e altre sostanze utili. Pensiamo ad esempio ai due rifiuti che attualmente caratterizzano gli impatti più pesanti per le sfide ambientali che stiamo affrontando: le emissioni di metano in atmosfera (il più pericoloso dei gas serra) e l’inquinamento da plastica dei mari e degli oceani. Considerandoli separatamente ci vorranno ancora dei decenni per arrivare a soluzioni produttive a impatto climatico pari zero. Considerandoli invece come parte di un unico ecosistema, dove nulla deve essere sprecato, si ottiene una grande potenzialità da un lato per contrastare i cambiamenti climatici e dall’altro un sistema industriale per produrre plastiche biodegradabili. Il punto di congiunzione, ancora una volta, ce lo fornisce la Natura.
Quello che si vede nella foto qui a sinistra è uno dei “geyser” più famosi al mondo: è l’Old Faithful situato nel Parco Nazionale di Yellowstone, nello stato del Wyoming (USA). E’ famoso perché le sue eruzioni di acqua calda e vapore, che talvolta raggiungono anche l’altezza di 40 metri, sono cadenzate con tempi prevedibili da parte dei turisti: lo spettacolo delle eruzioni quindi è sempre assicurato. Recentemente però in questo luogo è stato scoperto un batterio che si nutre soprattutto di gas metano: il secondo gas serra più diffuso al mondo dopo l’anidride carbonica (CO2), che contribuisce per il 18% alle emissioni che stanno alterando il nostro clima. Il metano, è bene ricordare, è tra le 25 e 34 volte più pericoloso della CO2. Oltre il 63% delle emissioni globali di questo gas è di origine antropica e viene generato da combustibili fossili, trattamento anaerobico delle acque reflue, discariche, estrazione di carbone, raffinerie di gas naturale e allevamenti intensivi di animali.
La ricercatrice americana Allison Pieja (la prima a sinistra nella foto qui sotto) della Stanford University di San Francisco, in California, dopo la loro individuazione ha scoperto inoltre che i batteri “mangia metano” (cosiddetti “metanotrofi”) usano questo gas per costruire lunghe catene di polimeri complessi: la materia di base per realizzare le plastiche biodegradabili. Nello stesso periodo un’altra ricercatrice, Molly Morris (al centro nella foto), stava studiando nuovi materiali sostenibili nel settore delle costruzioni. E cosi è venuto in mente ad un’altra ricercatrice, la microbiologa ambientale Anne Schauer-Gimenez (la terza a destra), di creare insieme alle due colleghe laureate in ingegneria una start-up, chiamata Mango Materials, per produrre plastica a partire dal metano. Nel depuratore per il trattamento delle acque reflue di Redwood City (tra San Francisco e Palo Alto), dove le emissioni maleodoranti erano spesso insopportabili per la popolazione residente, sono stati installati dei biodigestori che con apposite tubature convogliano il metano prodotto dalla fermentazione della parte organica dei reflui in una piccola camera di forma cilindrica.
In questa camera vengono usati i batteri metanotrofi che, attraverso dei processi che alternano fasi di abbondanza a fasi di carenza del gas presente nell’ambiente, trasformano il metano in un biopolimero biodegradabile chiamato poliidrossialcanoato, o PHA. Il risultato sono i prodotti in plastica biodegradabile che si vedono nella foto qui a destra. Si ottiene così il doppio effetto di ottenere da un lato un prodotto a basso costo e completamente alternativo alla plastica convenzionale di origine petrolchimica che, tra l’altro, non diventerà mai un rifiuto. Dall’altro lato si ottiene un abbattimento di grandi quantità di emissioni in atmosfera di metano. Il metodo infatti è applicabile in ogni ciclo produttivo, discariche e allevamenti di animali in particolare, dove vengono prodotti significative quantità di questo gas. A tutti gli effetti quindi si tratta di una industria che funziona come un ecosistema naturale dove tutto viene riutilizzato e nulla viene sprecato.