Gli orti sociali nelle città stanno prendendo sempre più piede ed allora qualcuno ha pensato bene di fare la stessa cosa con i giardini. L’idea era già buona di per sé, ma sta diventando molto più importante proprio a causa del Covid 19, perché permette alle persone interessate di uscire di casa, svolgere attività fisica e socializzare con gli altri pur mantenendo tutte le precauzioni necessarie: in primo luogo il distanziamento e le protezioni individuali. E allora, visto che in molti paesi si stanno introducendo misure di aiuti economici (reddito di base, reddito di cittadinanza, ecc.) per chi non dispone di un lavoro e per coloro che hanno entrate insufficienti, perché non abbinare le due cose? Può sembrare un’idea astrusa, ma in realtà qualcuno già ci sta pensando. Questo approfondimento si basa su un recente studio compiuto nella città di Lubiana, in Slovenia e su una ricerca effettuata lo scorso anno a Stoccolma (Svezia) durante la prima fase della pandemia. Per prima cosa, neanche a dirlo, dobbiamo trovare i soldi per garantire le retribuzioni e pagare i costi di avviamento degli spazi da far condividere. E mentre li troviamo, vediamo anche cosa farne.
Nello studio realizzato a Lubiana circa quattro anni sono stati confrontati due modelli economici di orticoltura e di giardinaggio urbano: un fenomeno sociale già presente da anni in città. Il primo è il cosiddetto modello dei costi evitati, che rappresenta una grande risorsa per ogni amministrazione pubblica (finora poco esplorata), mentre il secondo è un modello di business vero e proprio. I due modelli differiscono sostanzialmente per il fatto che il primo è rivolto all’autoproduzione, mentre il secondo è indirizzato alla vendita dei prodotti in eccedenza. L’obiettivo principale dello studio era quello di verificare se il secondo modello, quello del business, poteva diventare un’opportunità di reddito per i piccoli orti domestici familiari o per coloro che avevano avuto in affidamento degli orti sociali. Allo studio hanno partecipato 127 “giardinieri” che hanno risposto ad un questionario su Internet e/o a specifiche interviste in loco. L’indagine ha confrontato sia i ricavi che le spese ed ha dimostrato che con il modello dei costi evitati con l’autoproduzione, il risparmio è stato in media di 3,38 euro per ogni metro quadrato coltivato: quasi 463 euro l’anno per un orto medio di circa 137 m.q. Il guadagno medio per i giardinieri-orticoltori del modello business invece è stato più alto (4,29 euro a metro quadrato) anche se gli appezzamenti utilizzati erano molto più piccoli (32,5 m.q.). In sostanza lo studio ha dimostrato che i due modelli possono essere integrati tra loro. Per esempio, se una famiglia di due pensionati ha un appezzamento medio di 137 m.q., può produrre verdure per quattro persone e le conseguenti eccedenze possono essere vendute per ottenere denaro extra. In sostanza un hobby può cosi diventare un lavoro a tempo pieno, con relativa retribuzione. Da qui l’idea per l’amministrazione locale di potenziare ulteriormente la disponibilità di terreni e spazi urbani da dedicare a questo tipo di attività.
La ricerca realizzata a Stoccolma d’altra ha preso in considerazione un altro fenomeno sociale: la propensione per la popolazione residente per il giardinaggio urbano condiviso. Un’attività di cura e manutenzione che in altre città del mondo costano alle amministrazioni comunali ogni anno un bel mucchio di soldi (l’autore di questo articolo ne ha esperienza diretta). In pratica i parchi e i giardini vengono dati in gestione ad associazioni di cittadini residenti nelle loro vicinanze. Quest’attività volontaria, a sua volta genera e genererà ancora di più in futuro una significativa quantità di costi evitati, tanto che con questi risparmi si sta pensando di concedere un reddito di base a chi si occupa della loro gestione. Quello che si è formato nella capitale svedese, dove da sempre sono rimasti attivi i “portatori di memoria sociale ed ecologica”, è tutti gli effetti un “movimento per i beni comuni” degli spazi urbani ed è ormai diventata una forma di organizzazione sociale (anche politica). Questa organizzazione si è formata a livello globale circa dieci anni a seguito delle pubblicazioni di alcuni teorici (Elinor Ostrom, Dardot & Laval, in particolare) sui “beni comuni” e che da molte parti viene interpretata come un segno di “una nuova era di emancipazione sociale” dai vecchi modelli partitici di partecipazione alla politica. La pandemia ha messo in luce la storia di come la Svezia, che un tempo era il paese simbolo dell’assistenza e della sicurezza sociale, nel corso dei decenni ha gradualmente ma inesorabilmente declassato questi servizi, dandoli in gestione ai privati. Nei primi mesi il 45% dei morti da coronavirus in quel paese erano anziani che vivevano nelle case di cura e dove il contagio si è sviluppato con estrema facilità. Una vera e propria tragedia che ha innescato la reazione da parte dei cittadini.
Quella che all’inizio era una piccola e marginale iniziativa dei residenti che coltivavano piante e fiori nei parchi pubblici urbani, di fatto si sta trasformando in un vero e proprio programma amministrativo per tutta la città. Non a caso la richiesta di spazi per attività di questo tipo ha avuto un notevole aumento lo scorso anno proprio con l’avvento del Covid 19 perché questi spazi permettono alle persone di non restare da sole chiuse in casa, di uscire e di fare quattro chiacchiere con gli altri giardinieri, oltre che una attività fisica sempre utile ad ogni età. Il tutto mantenendo le dovute precauzioni dettate dal rischio di contagio. In poche parole: gli orti e i giardini condivisi, con la responsabilità di gestirli in comune, possono creare non solo relazioni collettive e nuovi spazi di socializzazione, ma anche nuove retribuzioni, nuovi modi di vivere e nuove soggettività socio-politiche.