Aumentare la conoscenza complessiva della popolazione sulle possibilità di non ammalarsi per prevenire tutte le malattie, incluso il Covid 19. Sembra l’uovo di Colombo ma è proprio il tema completamente assente dalla martellante comunicazione mediatica che subiamo ogni giorno da quando è scoppiata la pandemia. La questione è molto scivolosa e lo sappiamo bene, ma qualcuno e da qualche parte deve pur porre il problema, visto che tutti noi, più volte al giorno, veniamo informati sui numeri dei nuovi ammalati, dei ricoverati, dei guariti (per fortuna) e dei deceduti (purtroppo), lasciandoci ogni volta addosso una insostenibile sensazione di impotenza. Sappiamo tutto sull’indice di contagio e ormai abbiamo capito (e sarebbe il caso di evitare di ripeterlo continuamente), che i dati del lunedì sono apparentemente migliori solo perché nei fine settimana si fanno meno tamponi. Veniamo aggiornati quasi ora dopo ora su quante persone sono state vaccinate, di quante se ne vaccineranno prossimamente e delle quantità di dosi che le industrie farmaceutiche interessate, in modo più o meno affidabile, promettono di fornire ai governi nei mesi a venire. Il tutto senza alcun coordinamento tra gli stati a livello globale e all’interno degli stessi tra le varie regioni (leggi anche su questo sito: I nazionalismi smascherati dalla pandemia), per non parlare delle posizioni contrastanti, incluse le “bufale”, che abbiamo ascoltato dagli immancabili esperti. Nessun organo di informazione però, almeno di quelli accessibili su vasta scala (televisione in primo luogo) ci aiuta ad aumentare la nostra conoscenza di base sulle possibilità che hanno i nostri corpi di difendersi da soli. Noi non siamo medici che curano le persone, cioè gli unici che possono decidere quale medicina ci deve essere somministrata una volta che ci siamo ammalati (per questo siamo contrari alle cure “fai da te”). Siamo dei semplici operatori dell’informazione e dell’agricoltura biologica: due campi professionali dove, per avere risultati efficaci, bisogna conoscere bene e rafforzare le potenzialità auto immunitarie per la qualità dell’informazione da un lato e per permettere alle piante di difendersi da sole contro gli attacchi parassitari dall’altro. In altre parole ci prendiamo cura dell’informazione e della conoscenza sull’alimentazione di cui abbiamo bisogno quotidianamente. Crediamo quindi che si possa fare la stessa cosa anche nella medicina tradizionale e non affidarsi passivamente, ad esempio, all’incomprensibile e illeggibile “bugiardino” che troviamo dentro le scatole delle medicine. In buona sostanza, per noi la scienza deve basarsi sulla conoscenza, anche millenarie, di come si curano le malattie e non sostituirsi semplicemente ad essa con le scuse della “non scientificità” di questi metodi o di banali credenze popolari. Tanto più che, come dimostrano le tante varianti con cui il coronavirus sta mutando il suo DNA in giro per il mondo, ogni continente e ogni nazione ha una sua storia di cure sanitarie completamente diversa dalle altre. Per questo la medicina tradizionale non può essere contrapposta a una medicina autoproclamatasi “scientifica”.
Ed è da qui che bisogna ripartire perché, come si dice in Italia, non può essere buttato via il bambino con l’acqua sporca: ogni comunità ha le sue esperienze nel mantenimento della salute e nella prevenzione, diagnosi, miglioramento o trattamento delle malattie e poco importa se i suoi risultati siano spiegabili o meno allo stato attuale della conoscenza (o ignoranza) scientifica: tanto più se poi si cade in delle gigantesche contraddizioni. Cosa vuol dire?
Tutte le comunità rurali del mondo, soprattutto quelle indigene, ad esempio, hanno fatto e fanno tutt’oggi tantissimo affidamento sulle piante autoctone, sia per il cibo che per la salute. In tantissimi casi si tratta delle stesse piante che da un lato stanno scomparendo a causa della progressiva perdita della biodiversità causata dal “progresso”, mentre dall’altro sono oggetto della “pirateria genetica” da parte delle multinazionali chimico-farmaceutiche. Come a dire che la conoscenza legata alla cultura dell’uso degli estratti e dei componenti naturali di una pianta non va bene se lo fanno direttamente le popolazioni locali, ma va benissimo se invece poi gli stessi effetti vengono prodotti da una medicina di sintesi chimica creata in laboratorio: sostanzialmente una copia artificiale di quanto già reperibile in natura. Una doppia beffa per le comunità locali perché oltre alla disponibilità delle piante, progressivamente ne fa perdere anche la conoscenza delle proprietà. Ed è proprio l’erosione delle conoscenze che sta procedendo ad un ritmo molto più veloce della perdita materiale delle piante.
Proprio per questo si stanno formando in tutto il mondo delle vere e proprie reti di comunità per difendere il patrimonio culturale, prima ancora che alimentare e sanitario, rappresentato dalle tradizioni legate alle biodiversità locali. Queste reti stanno monitorando le zone dove il rischio della perdite delle conoscenze è più alto, con lo scopo di attuare tutte le iniziative necessarie per prevenirle e per riaffermare i legami inseparabili e inscindibili tra patrimonio culturale e patrimonio biologico. Si tratta di vere e proprie iniziative imprenditoriali basate sulla comunità: una delle più attive a livello globale è la Gram Mooligai Company Limited (GMCL), che opera nel Tamil Nadu (India). Ma anche nei paesi più ricchi questa sensibilità si sta facendo strada. E’ il caso dell’associazione austriaca TEH (Traditional European Healing) con ha sede a Pinzgau (distretto di Zell am See), nata per esplorare e promuovere le conoscenze mediche tradizionali partendo da 55 piante medicinali della regione.
Dal 2005 è diventata una rete più ampia che è arrivata a coinvolgere quasi mille attori, tra soci, agricoltori, in particolare donne agricole, produttori, insegnanti e dipendenti. Grazie a queste attività e a un negozio locale aperto nel 2010 la rete ha potuto creare nuovi posti di lavoro (part time) per 14 persone, principalmente donne per le quali è normalmente piuttosto difficile trovare un buon lavoro in quella regione. Queste reti, di fatto, stanno potenziando le difese autoimmunitarie delle comunità con l’informazione e la conoscenza. Esattamente come si dovrebbe fare in tutto il mondo con ogni forma di malattia, Covid 19 incluso. Guarda caso però di queste reti, i nostri mass media impegnatissimi a fornirci i numeri e i risvolti quotidiani della pandemia, ancora non ci hanno fatto sapere niente, né ci faranno sapere, temiamo, alcunché.