(con la collaborazione di Roberto Lessio)
Ripulire con grandi quantità di solventi le fuoriuscite accidentali di sostanze inquinanti nei fiumi e nei mari, tipo il petrolio, è un grande problema mondiale che impone costi rilevanti ed altri fattori di rischio ambientale. Ricordate la fuoriuscita di greggio provocato nel 2010 dalla Deepwater Horizon nel Golfo del Messico? Con quasi 800 milioni di litri di greggio riversato in mare in poche settimane è stato uno dei più grandi disastri ecologici della storia. Allo stesso tempo ogni giorno occorre molto detersivo da piatti per sgrassare pentole, stoviglie e posate, mentre talvolta (anche se non si deve fare, perché compromette la depurazione) viene più facile riversare l’olio di frittura direttamente nel lavandino. Altrettanto spesso il detersivo che usiamo non è biodegradabile e così finisce per essere anche questo uno dei maggiori fattori inquinanti della nostra acqua. Dunque, le possibilità di smaltire in modo naturale le sostanze oleose ormai inutili (a livello domestico) e quelle potenzialmente molto inquinati (a livello globale) senza utilizzare grandi quantità di acqua e senza causare altri inquinamenti secondari, fanno parte della stessa soluzione del problema. Anche in questo caso è stata la Natura a fornirci una risposta semplice ed estremamente efficace: le foglie fresche della felce d’acqua (Salvinia molesta).
Il fatto che questa pianta cresca completamente sotto acqua mentre le sue foglie sono idrorepellenti, cioè non assorbono acqua, è un fatto noto da sempre. La sua capacità di assorbimento per capillarità di grandi quantità di olio invece no. Ed è esattamente quello che hanno scoperto i ricercatori dell KIT (Karlsruher Institut für Technologie): uno dei più importanti istituti di ricerca della Germania. Le foglie di felce sono state lavorate per ottenerne filamenti di 0,3 – 2,5 millimetri di lunghezza, con i quali è stato ottenuto un foglio altamente assorbente in grado di galleggiare sull’acqua. Il prodotto finale è un accessorio, una sorta di frusta, che permette agli operatori di posizionare il foglio nei pressi delle chiazze oleose: queste vengono poi assorbite in un tempo incredibilmente breve (circa 20 secondi). Una volta terminato il processo, il foglio viene ritirato e immesso in una centrifuga per recuperare il materiale assorbito.
Questa scoperta consente, dunque, il riciclaggio di tutti i materiali coinvolti: sia dei fogli assorbenti, sia degli inquinanti che essi hanno ripulito. Le sostanze inquinanti assorbite, possono infatti poi essere riutilizzate come biocombustibile o come prodotti da raffinazione, mentre l’assorbente stesso può essere riutilizzato per un nuovo impiego o, essendo fatto di materiale vegetale, essere avviato al compostaggio per diventare terriccio. I ricercatori del KIT stanno sviluppando la scoperta per ottenere un prodotto industriale nanotecnologico, che separa automaticamente l’olio (o il petrolio) dall’acqua. La cosa particolarmente interessante è che questo assorbente risulta efficace verso tutti i tipi di olii, incluso quello da cucina. Non è lontano quindi il tempo in cui potremo fare a meno di tutti qui prodotti chimici sgrassanti che inquinano le acque dei nostri fiumi e dei nostri mari. Chissà che in questo modo possano calare anche i costi della depurazione e la relativa bolletta idrica.
Le applicazioni assorbenti dell’olio, petrolio e altri inquinanti oleosi rientrano nei cosiddetti materiali bioispirati. Nel lavoro svolto dall’istituto tedesco Karlsruher Institut für Technologie sono state quantificate le capacità di assorbimento di olio lubrificante di tre specie vegetali, che avevano strutture e superfici diverse: la felce d’acqua (Salvinia molesta), la cosiddetta lattuga d’acqua (Pistia stratiotes) e le foglie di loto (Nelumbo nucifera). Il confronto è avvenuto confrontando la capacità di assorbimento di olio rispetto ai comuni assorbenti artificiali.
La felce d’acqua e la lattuga d’acqua sono piante invasive di origine sub-tropicale (per questo considerate parassitarie) che vengono sempre più spesso utilizzate per trattare i reflui urbani domestici con la fitodepurazione, ossia la depurazione attraverso le piante. In tal modo si produce una grande quantità di biomassa che può essere trasformata in biogas e compost per l’agricoltura, in un sistema virtuoso: le piante assorbono l’anidride carbonica, poi con esse si produce gas che genera CO2 il quale, a sua volta, verrà riassorbita dalle piante stesse, materia prima di questo processo industriale. Cosa ben diversa dai cosiddetti ‘bio’gas che invece utilizzano anche fanghi di depurazione, percolati e altri pericolosi scarti non riutilizzabili in agricoltura e che non riassorbono l’anidride carbonica.