Più della metà degli indumenti che si producono annualmente nel mondo, quasi 100 milioni di tonnellate, non vengono più usaati in meno di un anno. Secondo alcuni esperti statunitensi questa cifra crescerà del 50% entro i prossimi 10 anni, anche se la pandemia da Covid 19 sta rallentando significativamente questa crescita. La maggior parte degli articoli sono di moda pronta (cosiddetta prêt à porter) e vengono prodotti ancora oggi in Bangladesh, malgrado gli scandali degli anni scorsi sullo sfruttamento del lavoro minorile e femminile. In tempi normali questa montagna di prodotti tessili viene immagazzinata come scorte stagionali di pre-consumo e che per la maggior parte poi vengono vendute con il meccanismo dei “saldi di fine stagione”. Dall’altra parte l’emergenza sanitaria ha interrotto prima e limitato poi l’esportazione post-consumo dei medesimi prodotti tessili verso i principali mercati di riutilizzo: Europa orientale e Africa. In sostanza all’inizio della pandemia si stava creando una ulteriore montagna di rifiuti che rischiava di finire in discarica o negli inceneritori, mentre allo stato attuale (fine luglio 2021) lo stato di incertezza in tutto il settore permane ancora molto elevato. Resta il fatto che ogni anno viene già prodotta una enorme montagna di rifiuti tessili basata essenzialmente sui vecchi concetti di consumo: il paradosso di questo particolare settore sta nel fatto che una buona parte degli indumenti che vengono avviati allo smaltimento non sono mai stati indossati (neanche una sola volta) da chi li ha comprati. Si tratta quindi di un’ulteriore forma di spreco che in più ha l’aggravante di non essere servito a nulla e di aver determinato un incremento senza senso dei gas serra nell’atmosfera. Altri esperti statunitensi a loro volta hanno calcolato che se ogni cittadino degli Stati Uniti acquistasse un articolo di abbigliamento usato all’anno, piuttosto che comprarne uno nuovo, si eviterebbe l’emissione di circa 2,6 milioni di tonnellate di CO2, si risparmierebbero 11 miliardi di chilowattora di energia elettrica, quasi cento miliardi di litri d’acqua non utilizzata ed oltre 200mila tonnellate di rifiuti evitati. I calcoli sono stati effettuati anche su quante risorse verrebbero risparmiate con gli articoli di abbigliamento noleggiati: rispettivamente si tratta di 13.300 tonnellate di carbonio e 608 milioni di litri di acqua in meno. Da questi dati quindi si è sviluppata l’idea di una alternativa legata all’abbigliamento riusato e condiviso, cercando allo stesso tempo di rallentare la velocità complessiva con cui si stanno scartando attualmente gli indumenti che riempiono i nostri armadi. Ed è parso logico che insieme a questa tendenza ad evitare lo spreco, si prestasse la giusta attenzione anche alle condizioni di lavoro alle quali sono costrette le persone che li producono.
I Paesi Bassi sono tra i paesi più attenti su questi argomenti e non a caso hanno fissato un obiettivi ambiziosi per l’intera economia nazionale: già dal 2016 è stato pianificato il dimezzamento del consumo delle risorse esauribili entro il 2030 e il 100% di economia circolare entro il 2050. In un aggiornamento effettuato lo scorso anno è risultato che era già stato raggiunto il 24,5% dell’obiettivo finale. Uno dei cinque settori che saranno trainanti per il raggiungimento di questi obiettivi è proprio quello tessile. Ogni anno i cittadini olandesi smaltiscono in media 17,7 chilogrammi pro capite di indumenti e abbigliamento e meno della metà (il 44,6%) viene raccolto separatamente. Tra le strategie adottate c’è anche quella di far emergere nuovi posti di lavoro specializzati nella riparazione, nella manutenzione, nella rigenerazione, nel design, nell’innovazione, nella conoscenza dei diversi materiali recuperati, nelle nuove composizioni e negli ri-abbinamenti degli indumenti usati. Si tratta, da un lato di veri e propri progettisti “ri-manufatturieri” e di personale in grado di valutare lo stato di usura e di riutilizzo di ogni singolo capo. Dall’altro lato c’è l’occupazione aggiuntiva che verrà creata con la raccolta differenziata, la cernita, la ricomposizione e la ricucitura degli stessi indumenti. Notevole sarà anche l’incremento di negozi specializzati nel noleggio e nel riuso anche degli accessori (scarpe, borse, cinture, ecc.). Essendo stata data la priorità al riutilizzo dell’abbigliamento a livello locale, il potenziale occupazionale aggiuntivo del settore dovrebbe essere del 25% in più entro il 2050. Considerando che ogni anno nei Paesi Bassi si vendono tra gli 800 e i 900 milioni di capi, è prevista nella strategia anche una forte riduzione della massa di indumenti da mettere in vendita: da questo altro segmento del settore ci si aspetta un ulteriore incremento del 20% dei posti di lavoro disponibili. L’obiettivo parallelo è quello di eliminare il più possibile lo spreco attuale che include, solo in questo paese, l’emissione di 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 l’anno. Non c’è dubbio quindi che il cambiamento nel modello di consumo, dando priorità alla riparazione e al riciclo di fibre tessili (che in futuro potranno anche essere di esclusiva produzione biologica), avrà un forte impatto soprattutto sui livelli e sulle capacità professionali dei giovani olandesi e di chiunque altro si trovi attualmente fuori dal mercato del lavoro. Questo è esattamente quello che noi intendiamo per economia circolare vera e non un banale “greenwashing” dell’economia attuale.