L’obiettivo assunto dalle organizzazioni internazionali di porre fine alla povertà estrema attraverso una “prosperità condivisa” entro il 2030 a livello globale, era già sostanzialmente irraggiungibile prima della pandemia da Covid 19. Ora, con la necessità di finanziare l’economia del “primo e del secondo mondo” (a quella del terzo e quarto mondo, come vedremo, non gliene importa niente a nessuno), il raggiungimento di questo obiettivo diventerà ancora più difficile. Ma il fallimento è già certo se non si risolverà una volta per tutte la questione dei paesi che agevolano, aiutano e incoraggiano l’evasione e l’elusione fiscale negli altri paesi. Questa gigantesca iniquità globale era già stata evidenziata dall’organizzazione internazionale indipendente Oxfam tre anni fa (scandalo “Paradise Papers”), ma è stata riconfermata dai dati pubblicati recentemente dall’osservatorio della Banca Mondiale sull’evoluzione dei redditi pro capite nelle varie nazioni e nelle macro aree del globo. Sono numeri che provocano ancor più rabbia e indignazione, proprio alla luce dell’emergenza sanitaria in corso. Prima di arrivarci nell’analisi, illustriamo le premesse di questa inchiesta.
Nel 2013 il Consiglio dei Governatori della Banca Mondiale aveva approvato un programma molto ambizioso finalizzato a raggiungere due obiettivi strategici. Il primo prevedeva che nell’arco di 16 anni si sarebbe dovuta ridurre ad una frazione quasi insignificante, meno del 3%, la popolazione che a livello mondiale sopravvive con meno di 1,25 dollari al giorno (circa 1 euro al cambio dell’epoca), misurato rispetto al potere d’acquisto di ogni singolo paese. Valeva a dire che dai 1,2 miliardi di persone calcolati nel 2010 (quasi il 18% dell’intera popolazione mondiale) si sarebbe passati a poco più di 200 milioni. Valeva a dire che per 16 anni circa un milione di persone a settimana doveva uscire dalla povertà. L’attenzione e gli sforzi necessari dovevano essere rivolti soprattutto in quei paesi dove si concentrano quasi i 2/3 della povertà totale: India (33%), Cina (13%), Nigeria (7%), Bangladesh (6%) e Repubblica Democratica del Congo (5%). Questa ipotesi è stata formulata perché i dati documentavano un dimezzamento del problema rispetto a venti anni prima: nel 1990 infatti la povertà nel mondo era del 36%. Entro quest’anno, nel 2020, era anche previsto un obiettivo intermedio con la riduzione che doveva portare il dato al 9%. Il secondo obiettivo riguardava la cosiddetta “prosperità condivisa” che prevedeva la progressiva crescita del reddito medio delle persone che rientravano proprio nella fascia dei più poveri tra i poveri: fascia stimata nel 40% del totale. A questi due obiettivi se n’è aggiunto poi un terzo, altrettanto fondamentale: la cancellazione della povertà estrema e il raggiungimento della prosperità condivisa dovevano essere perseguite in modo sostenibile, contribuendo così a garantire un futuro a lungo termine per il pianeta e le sue risorse, garantendo allo stesso tempo anche l’inclusione sociale e limitando gli oneri economici a carico delle future generazioni. Il tutto sarebbe stato supportato dal progressiva crescita del PIL mondiale che man mano avrebbe ridistribuito anche ai paesi poveri la ricchezza prodotta. L’intero progetto quindi è stato inserito un apposito e dettagliato rapporto (“Prosperità per tutti”), che conteneva anche specifiche raccomandazioni politiche per i settori economici interessati in ogni paese e che doveva essere aggiornato anno dopo anno per monitorarne lo stato di avanzamento.
Ma già dopo aver pubblicato il primo rapporto sono stati i vertici della stessa Banca Mondiale a mettere le mani avanti, dichiarando che l’obiettivo era molto lontano dall’essere raggiunto e che la data del 2030 doveva essere spostata in avanti. Si è iniziato a evidenziare che la sola crescita economica non era sufficiente ad eliminare la povertà. La sua diminuzione in primo tempo aiuta l’economia, ma poi nel tempo raggiunge sempre meno le persone interessate perché tutti i vantaggi della crescita economica vanno sempre e solo ai già ricchi. Soprattutto se questi possono mettere in campo interi eserciti di avvocati, commercialisti e altri professionisti che occultano sistematicamente i loro guadagni nei paradisi fiscali. Soprattutto se questa ricchezza viene prodotta con le speculazioni finanziarie e non con il lavoro. Non a caso alcuni economisti, come ad esempio il francese Thomas Piketty, sostengono che la ricchezza complessiva della nostra epoca è distribuita grosso modo come 100 o 200 anni fa: di fatto la redistribuzione non esiste. E i dati pubblicati lo scorso mese di agosto dalla Banca Mondiale sui redditi pro capite di ogni paese confermano questa drammatica realtà. Le due nazioni già più ricche al mondo sono notoriamente dei paradisi fiscali e sono anche quelle che negli ultimi anni hanno battuto il record dell’incremento della loro ricchezza. In compenso le nazioni già più povere del pianeta lo sono diventate ancora di più. Ma anche tra quelle che stanno in mezzo ci sono nazioni dove c’è stata una decrescita del reddito pro capite. Il motivo comunque è sempre lo stesso. All’interno di questi paesi il reddito medio complessivo sta calando in danno dei poveri ed a vantaggio dei ricchi.
In testa alla classifica infatti c’è il Lussemburgo con 85,63 dollari al giorno pro capite (dato del 2017) che è incrementato di oltre dieci dollari rispetto ad appena 6 anni prima. Seguono la Svizzera con 70,55 dollari pro capite al giorno e gli Stati Uniti (che ha uno stato – il Delawere – considerato a sua volta paradiso fiscale) con 69,40 $ (erano 62,93 cinque anni prima). In coda alla classifica, neanche a dirlo, ci sono quasi tutti i paesi africani, in particolare quelli che dispongono ancora di ingenti risorse naturali e materie prime. Attenzione! Parliamo di media statistica su tutta la popolazione: cioè della regola in base alla quale se io mangio un pollo al giorno e tu non mangi nulla, abbiamo comunque mangiato mezzo pollo a testa. Ciò vuol dire che milioni di persone in questi paesi il reddito di 1,25 se lo sognano la notte (ammesso che riescano a dormire e a sognare). L’ultima posizione è andata al Malawi di 2,17 dollari/giorno/pro capite. Penultimo è il Ruanda dove il reddito è persino diminuito da 2,55 dollari del 2011 a 2,54 nel 2016. Seguono il Togo con 2,64 e la Tanzania con 2,72 dollari/giorno/pro capite.
Tra le nazioni “di mezzo” la situazione più esemplificativa è senz’altro quello dell’Argentina (patria di Papa Francesco) dove il reddito medio della popolazione è sceso da negli ultimi anni da 20,55 a 19,00 $/g/p.c. Esemplificativo è anche il caso della Grecia, sulla quale si accanita la politica rigorista (a favore dei paesi europei più ricchi, occorre aggiungere) dei rappresentanti della BCE e dell’Unione Europea (la famosa “Troika”), dove il reddito pro capite è rimasto sostanzialmente invariato nella cifra (poco più di 22 dollari) ma è stato massicciamente eroso dall’inflazione. Il record di perdita del già magro potere d’acquisto invece spetta la travagliato Botswana dove il reddito medio della fascia più povera è di 42 centesimi di dollaro al giorno; in media la popolazione ha subito un calo di quasi un dollaro rispetto ai 3,30 dollari di cinque anni prima. Sorte simile ha avuto anche il confinante Zimbabwe dove il già magrissimo reddito di 4,85 dollaro giorno è sceso a 3,92. Altri paesi dove il reddito è diminuito sono l’Uganda, la striscia di Gaza in Palestina, l’Egitto (da 5,37 a 5,06) e in Bolivia.
In Europa infine, a sorpresa, è la Russia a detenere il record della diminuzione del reddito che è passato dai 22,35 dollari del 2011 ai 19,93 del 2017. Questo è il dato più interessante su scala globale visto che gli oligarchi russi, gli stessi che qualche anno fa andavano in giro per il mondo a comprare squadre di calcio come se fossero caramelle e cioccolatini, i loro immensi guadagni da qualche parte li devono pur aver depositati. Chissà dove …
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