Mettere insieme le teste e i propri percorsi personali è probabilmente la fatica più grande per far partire un progetto sui beni comuni. Il primo passo da fare per superare questo ostacolo è quello di passare nel tempo più breve possibile dalla teoria alla pratica. Non importa se il progetto non è ancora perfettamente corrispondente all’idea che ognuno dei partecipanti ha in mente: intanto si parte dalle cose più semplici e condivise e poi l’idea si perfezionerà da se (se è un buon progetto) oppure, sempre da se, si esaurirà per assenza di progressi (perché evidentemente non è un buon progetto). Che sia individuale o collettiva, piccola o grande, ogni idea nasce in questo modo e quella di trovare una alternativa allo straripante potere delle grandi catene di distribuzione e commercializzazione dei prodotti alimentari non sfugge a questa regola universale. Trovare il modo per offrire cibo locale, biologico, fresco, stagionale, nutriente e di buon sapore è un’idea che probabilmente centinaia di milioni di persone nel mondo, forse miliardi e probabilmente gran parte dell’intera umanità, ha da sempre in testa. L’obiettivo di tutti è quello di sottrarsi alla logica dell’agricoltura industrializzata che funziona come una catena di montaggio e all’abberrazione degli allevamenti di bestiame dove gli animali non toccano mai un centimetro quadrato di terra nella loro breve vita. Trovare il modo, in sostanza, per non dover uscire con il carrello pieno da un supermercato, ma completamente svuotato della propria individualità alimentare di consumatori, in nome di un appiattimento e di una omologazione dei consumi che guarda solo agli interessi di chi vende il cibo e non di chi lo acquista. Ma per fortuna, anche in questo settore, i progetti basati su buone idee, piano piano, cominciano a fare progressi. Alcune di queste idee si stanno facendo conoscere con diverse modalità e denominazioni. Dei Consorzi Alimentari Sostenibili ne abbiamo già parlato (vedi link a fine pagina), con questo approfondimento parliamo ora anche dei circuiti alimentari di prossimità: dei veri e propri negozi gestiti congiuntamente sia dai produttori (“negozi congiunti”) che dai consumatori (“spesa congiunta”).
Strutture organizzate che non devono aspettare l’arrivo di enormi camion per avere le forniture, che non hanno bisogno di molta logistica per funzionare, che non sprecano un sacco di energia per condizionare i prodotti e gli spazi di vendita, che non hanno bisogno di posizioni gerarchiche tra i dipendenti, che non devono sottostare a campagne pubblicitarie di “greenwashing” per far comprare dai clienti ignari i loro prodotti e che, soprattutto, non devono rivolgersi ai grossisti per l’approvvigionamento (con gli inevitabili aumenti di prezzo) in quanto le forniture vengono garantite direttamente dai produttori locali. Ovviamente i problemi non mancano, anzi. Prima di tutto c’è l’incertezza giuridica e la forma legale dell’organizzazione che gestisce queste attività, poi ci sono anche problemi di inquadramento professionale tra i dipendenti e i volontari, senza trascurare gli inevitabili periodi dove le forniture dei prodotti possono essere carenti. Ma l’idea di base dalla quale sono partite queste iniziative, riguardano sempre due aspetti fondamentali: 1) la relazione diretta tra produttore e consumatore senza l’intervento di intermediari (o nel limite massimo di uno o due), con possibilità di accesso anche ad informazioni di carattere sociale, oltre che ambientale, sui prodotti acquistabili; 2) l’ancoraggio territoriale sia della produzione che dell’acquisto dei prodotti, possibilmente collegato alla valorizzazione del proprio territorio e la ricreazione di un saldo legame tra città e campagna.
Non si parla quindi solo di vendita diretta da parte di un singolo produttore, magari direttamente in azienda, ma di qualcosa di molto più complesso che cerca di dare una risposta agli enormi problemi creati dalle grandi strutture di vendita centralizzate. L’importante è partire con una buona idea, come si diceva all’inizio, perché non si tratta di mobilitare contemporaneamente le potenziali parti interessate tutte insieme e in una sola volta: fondamentale per lo sviluppo di queste idee è che la mobilitazione delle persone sia sempre in aumento. E quindi vediamo due esempi che, anche in questo caso (come per i Consorzi Alimentari Sostenibili), provengono dalla Francia: il primo riguarda la ristorazione collettiva che ha dato un grande impulso per cambiare verso le produzioni biologiche l’intero comparto produttivo agricolo locale; il secondo è un’organizzazione di coinvolgimento reciproco tra produttori e consumatori attivata con una rete di vendite diffuse sul territorio di prodotti quasi esclusivamente locali.
Circa quaranta anni fa nel comprensorio agricolo della città di Lons le Saunier (dipartimento di Giura, non lontano dal confine con la Svizzera) si scoprì che il sistema idrico locale era completamente inquinato dai nitrati: un inquinamento causato dalle deiezioni degli animali e dall’eccesso dei concimi azotati usati in agricoltura. A pagarne le conseguenze furono principalmente gli allevatori di bestiame e i produttori di latte. L’amministrazione comunale decise così di incoraggiare l’agricoltura e la zootecnia biologica incentivando le aziende che avrebbero accettato la conversione produttiva e abbandonando l’uso dei prodotti chimici. Il Comune era anche proprietario di un servizio di ristorazione collettiva e circa dieci anni dopo fece partire un progetto per rifornire in prospettiva il medesimo servizio interamente con prodotti biologici locali. L’introduzione nei pasti dei prodotti biologici fu progressiva, man mano che questi venivano resi disponibili dai coltivatori e dagli allevatori. L’obiettivo è stato raggiunto in pochi anni e da quel momento in poi il 100% di tutta la produzione locale è diventata biologica, con grandi risparmi anche nel trasporto delle merci. Nel 2001, sempre su spinta dell’amministrazione comunale (visti i ragguardevoli risultati ottenuti), è stato creato anche un settore specifico per la produzione di grano biologico, collegato ad un mulino per la trasformazione in farina. Cosi anche la fornitura di pane è diventata interamente biologica. Di li a poco sono state aggiunte anche le verdure e la frutta e a quel punto il servizio di ristorazione comunale ha iniziato a fornire 5.000 pasti al giorno: ora 500 pasti sono serviti in loco direttamente nel ristorante ai cittadini che ne fanno richiesta, 1.000 pasti vengono consegnati all’ospedale di Lons, altri 3.000 sono a disposizione dela ristorazione scolastica e 500 vengono destinati ai centri sociali per gli anziani. All’inizio il Comune aveva finanziato il costo aggiuntivo dovuto all’incentivazione e all’integrazione sia del pane biologico che della carne. Quando la catena del pane è andata a regime, è risultato che il prezzo d’acquisto da parte della mensa comunale era aumentato di poco e il costo aggiuntivo era scomparso in poco tempo. La stessa cosa era avvenuta per la carne. Il costo del servizio di ristorazione comunale è sempre stato in pareggio (quindi senza aumento delle tasse) e con l’aumento della disponibilità dei prodotti biologici locali anche i negozi di alimentari hanno potuto avere un flusso costante di forniture. Recentemente anche i consumatori hanno iniziato ad allearsi per effettuare una spesa coordinata con i produttori (cioè anticipata al momento della semina e del trapianto sul campo) a prezzi concordati.
La “Ferme Saônoise” è stato il primo punto vendita con laboratorio di lavorazione collettiva inaugurato nel 2003 nel Comune di Bougnon (dipartimento dell’Alta Saona). Nella regione non c’era alcuna forma strutturata di offerta dei prodotti locali e proprio a questo scopo la locale Camera dell’Agricoltura aveva creato un’apposita associazione (“la Marandine”). L’iniziativa riguardava diversi Comuni della zona e con l’avvio delle attività di promozione alcuni produttori hanno iniziato a scambiarsi i prodotti per ampliare la propria gamma di offerta: gradualmente è stata creata anche un’apposita struttura di stoccaggio e vendita diretta in uno dei Comuni interessati (Vesoul). Il laboratorio consentiva e consente tutt’oggi agli associati di trasformare direttamente in loco i loro prodotti e il negozio viene aperto 3 volte alla settimana. Si è sviluppata così una clientela prettamente locale (l’85 % dei clienti risiedono in un raggio di 15 km dal punto vendita). In poco tempo ulteriori negozi di vendita diretta sono stati aperti in altri Comuni della zona. In questo modo si è creato un forte legame sociale tra le attività sul territorio e una connessione diretta tra consumatori e produttori. Oggi questi punti vendita rappresentano una importante risorsa per l’intero territorio anche per favorire l’accoglienza di nuove tradizioni (ad esempio quelle degli immigrati), dando luogo a nuovi percorsi di integrazione sociale.
Quali sono le chiavi del successo di queste iniziative? Intanto la perseveranza delle persone coinvolte nella convinzione che si trattava di una buona idea, poi c’è stata l’intelligente scelta di fare le cose gradualmente e man mano che l’esperienza maturava. Inoltre è stata determinante la presenza di agricoltori e allevatori biologici convinti del loro approccio produttivo e infine, ma non da ultimo, è stato importante il confronto orgoglioso con gli impatti determinati dalla grande distibuzione organizzata, sia in senso ambientale che sociale. Su tuttoequeste ragioni comunque è risultata determinante la forte volontà politica di amministratori locali competenti, consapevoli e lungimiranti.
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