Il disboscamento forsennato delle foreste pluviali non è l’unica causa che sta progressivamente eliminando il patrimonio di biodiversità complessiva del nostro pianeta. Ad incrementare questa perdita c’è anche la distruzione sistematica delle zone umide che vengono spazzate via per ricavare, anche in questo caso, terreni agricoli di scarso valore produttivo. E’ un altro dei più grandi scandali sconosciuti della nostra epoca. Uno scandalo al quale poi se ne aggiungono altri due di pari dimensioni, se non addirittura superiori: questi terreni avranno sempre bisogno di tanti pesticidi e concimi chimici per tirare avanti, ma le grandi aziende interessate possono farlo solo ricorrendo alle generose sovvenzioni milionarie che l’Unione Europea concede loro ogni anno “a occhi chiusi”. Queste politiche di agevolazioni di fatto stanno costringendo le piccole aziende agricole a chiudere l’attività, mentre il possesso delle loro terre passa sempre di più nelle mani di quelle grandi. Il risultato è che nell’anno 2020 più della metà dei terreni coltivabili nell’Unione Europea sono in mano al 3,1% delle aziende agricole totali. E considerando che ogni anno per la Politica Agricola Comunitaria (PAC) vengono impegnati quasi 60 miliardi di euro, che corrispondono a 110 euro l’anno per ogni cittadino attuale dell’Unione, significa che la cifra di 750 miliardi di euro stanziati con il programma Next Generetion 2.0, non rappresenta affatto quell’impegno economico così straordinario che è stato presentato e raccontato all’opinione pubblica due anni fa. La PAC era ed è ancora basata essenzialmente su due pilastri: il primo consiste in pagamenti diretti connessi alle superfici agricole utilizzate dalle aziende a seconda del tipo di coltura realizzata, mentre il secondo riguarda lo sviluppo rurale in generale e che comprende anche le misure agro-climatiche-ambientali per la tutela sia del clima che degli ecosistemi. Il risultato di questa politica miope è stato che il 70% dei fondi stanziati annualmente (circa 42 miliardi) sono andati ai pagamenti diretti delle superficie agricole del primo pilastro, senza che fossero stati mai stabiliti obiettivi concreti e misurabili per i risultati da raggiungere. Di conseguenza proprio le aziende di grandi dimensioni hanno ricevuto i contributi più elevati, tra i 20 e i 25 miliardi di euro l’anno; aziende che poi sono anche le stesse a fare il maggior uso di concimi chimici e di pesticidi.
Tutto questo ha portato al paradosso che negli ultimi 15 anni la vendita complessiva dei pesticidi nei paesi dell’UE si è mantenuta costante, anche se c’è stata una drastica diminuzione dei consumi nei paesi che hanno intrapreso con convinzione sia il contrasto al loro uso indiscriminato che la strada dell’agricoltura biologica. Se da un lato in Danimarca, ad esempio, i quantitativi consumati in appena due anni (tra il 2013 e il 2015) si sono dimezzati grazie anche ad una tassa istituita appositamente, in Polonia nello stesso periodo le vendite si sono triplicate. C’è poi anche il caso del Regno Unito, ormai definitivamente uscito dall’Unione Europea a seguiro della “Brexit”. Anche in questo caso l’uso dei pesticidi si è ufficialmente dimezzato negli ultimi decenni, ma in realtà si è raddoppiata la superficie agricola trattata con i terreni sottratti anche alle zone umide, oltre che alla pastorizia: il quantitativo complessivo utilizzato, tra l’altro, è drasticamente aumentato proprio nel consumo dei prodotti più tossici, tipo i neonicotinoidi responsabili dello sterminio delle api e degli altri insetti impollinatori. L’agricoltura intensiva basata sui pesticidi quindi è la grande imputata per gli impatti nefasti che sta determinando sulla biodiversità degli ecosistemi. Anche in questo caso i numeri lasciano poco spazio a generiche e disinformate discussioni. Senza considerare i fertilizzanti chimici, nel loro complesso il consumo di pesticidi nei paesi dell’UE (erbicidi, fungicidi, insetticidi, acaricidi, fitoregolatori, repellenti, ecc.) negli ultimi anni è stato di 391mila tonnellate: oltre 2,1 kg per ettaro. E’ vero che nel calcolo viene inclusa anche l’anidride carbonica utilizza per trattare le scorte alimentari e gli usi non agricoli degli stessi prodotti (ad esempio i disseccanti per la manutenzione delle aree verdi nelle città), ma resta il fatto che oltre l’80% delle vendite è costituito dai fungicidi e dagli erbicidi: cioè dai maggiori responsabili della perdita di biodiversità sul nostro pianeta. Gli erbicidi, in particolare i disseccanti (tipo il “Roundup” della Monsanto-Bayer) sono i prodotti maggiormente utilizzati per unità di superficie coltivata nelle aziende convenzionali/intensive. I fungicidi incece rappresentano il costo maggiore per unità di superficie trattata soprattutto nella produzione di frutta, di ortaggi e di piante ornamentali. In molti casi ormai si è arrivati a oltre 30 trattamenti l’anno sulla stessa unità di superficie: in media un trattamento ogni due settimane.
Questi effetti perverversi per i nostri ecosistemi trovano la loro massima espressione negativa con la distruzione sistematica e il degrado delle zone umide, ritenute ormai unanimemente dal mondo scientifico tra i principali serbatori di biodiversità della Terra, ma considerate anche tra quelle aree che hanno le maggiori possibilità di contrasto spontaneo (cioè senza imput esterni) ai cambiamenti climatici. I danni provocati dalle attività agricole intensive in questi ambiti sono incalcolabili perché abbinano il doppio effetto dell’uso indiscriminato dell’acqua per l’irrigazione con l’inquinamento derivato dall’uso massiccio di questi prodotti. Il deflusso dell’acqua inquinata, una volta usata, finisce per provocare effetti a catena che soffocano e tolgono spazio vitale alle specie presenti negli acquitrini e nelle zone circostanti alle zone umide.
L’effetto più drammatico per gli ecosistemi comunque si determina quando le zone umide vengono completamente distrutte per far posto a dei terreni solo teoricamente coltivabili e produttivi; esattamente come avviene per i disboscamenti. Non si tratta di superfici marginali e di poco conto perchè le zone umide sono diffuse in tutto il mondo lungo le coste, i laghi, i fiumi, le paludi, le torbiere, le foreste di mangrovie e le barriere coralline. Spesso si trovano anche nell’entroterra dove svolgono anche un fondamentale ruolo di accumulo e di ricarica per le falde acquifere. La conservazione di queste zone rappresenta una importante pagina della nostra storia, anche questa del tutto sconosciuta. Si va dall’antica zona umida di Otmoor, nello Oxfordshire, in Inghilterra che già nel 19° secolo fu oggetto di un tentativo di alterazione che portò persino a dei disordini popolari tra il 1829 e il 1830; poi è stata interessata da un progetto per la costruzione di un’autostrada, circa trent’anni fa, ma oggi è una importante riserva naturale che da rifugio a migliaia di uccelli selvatici e trampolieri, oltre ad altre specie di fauna selvatica che da sole possono eliminare in un solo giorno una quantità di insetti che neanche il più potente degli insetticidi è in grado di fare in un anno. Il soggetto che si vede nella foto qui di fianco, un martin pescatore, è uno dei più temibili. In Italia fin dalla prima metà del secolo scorso le zone umide hanno permesso l’istituzione di delicate aree protette: i laghi retrodunali del Parco Nazionale del Circeo collegato alla vicina Oasi naturale di Ninfa, ad esempio. In Francia l’area della Camargue, con oltre 93.0000 ettari, costituisce il più grande delta fluviale dell’Europa occidentale. In Germania già da trenta anni, nella Regione della Bassa Sassonia è attiva una tassa nota come “water penny” che ogni anno raccoglie circa 30 milioni di euro con i quali vengono effettuati pagamenti diretti agli agricoltori per la conversione produttiva al biologico, la diminuzione di input chimici, il ripristino di aree umide e degli ecosistemi fluviali. In altri paesi europei invece questo processo di consapevolezza non è avvenuto in passato (o comunque non ha avuto gli effetti sperati), ma sta ricevendo comunque un grande impulso negli ultimi anni. E’ il caso della Spagna che è il terzo paese al mondo per numero di zone umide protette, dopo Regno Unito e il Messico, ma dove di fatto persiste ancora una alta pressione degli impatti umani con lo sfruttamento eccessivo delle falde acquifere a scopi agricoli, con conseguente eccesso di nutrienti chimici e pesticidi.
Grazie ad una forte pressione popolare recentemente è stata presentata una proposta per il recupero e il ripristino dei 6.165 ettari della Doñana (provincia di Cadice, regione Andalusia), la più grande e importante zona umida della Spagna eliminata pochi decenni fa per far posto a terreni agricoli dedicati all’agricoltura intensita. I rapporti del caso raccontano che la vecchia laguna è stata trasformata, denaturata e usurpata da diverse aziende agricole che ricevono “sovvenzioni milionarie” dalla Politica Agricola Comune, proprio per realizzare le attività agricole intensive. L’azienda maggiormente imputata è una delle più grandi della dell’intero paese ed è quella che ogni anno riceve i maggiori sussidi dai pagamenti diretti di tutta la Spagna: più di due milioni di euro nel solo 2019. In questo senso, il Parlamento Europeo ha chiesto recentemente alla Commissione Europea di indagare su che fine fanno i soldi che dovrebbero integrare il reddito delle piccole aziende e che invece producono tanti guadagni in danno diretto degli ecosistemi e della biodiversità di questo pianeta.
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