Gli ecosistemi naturali non possono esistere senza l’aiuto reciproco tra le varie forme di vita che ne fanno parte e per quelli umani vale la stessa regola: questa realtà comuncia a farsi strada in tutto il mondo. Tra le tantissime forme di cooperazione esistenti in natura la più conosciuta è sicuramente la simbiosi “mutualistica”, che determina un vantaggio reciproco tra le varie specie vegetali e animali: vantaggio che non esisterebbe se ognuno lavorasse per conto proprio. La cosiddetta “simbiosi delle leguminose”, che è anche una delle regole base dell’agricoltura biologica, è la più usata in assoluto e consiste nel vantaggio ecologico realizzato in modo cooperativo dagli organismi azotofissatori presenti nel suolo, soprattutto batteri, insieme alle radici delle piante leguminose (fagioli, piselli, ceci, fave, trifoglio, erba medica, ecc.). Questa particolare forma di simbiosi ha una importanza ecologica ed economica straordinaria per tutti gli esseri viventi perché permette la fissazione biologica dell’azoto atmosferico che viene trasformato in azoto organico, per essere messo a disposizione poi anche per tutte le altre specie vegetali, incluse quelle di cui si nutrono gli animali erbivori, che a loro volta poi diventano alimento per i carnivori. L’azoto è l’elemento gassoso più diffuso che c’è nell’aria che respiriamo, ma non esiste in forma solida in natura; allo stesso tempo però è un elemento indispensabile nel processo di accrescimento delle piante, soprattutto nella fase iniziale di accrescimento.
In senso figurativo anche tra gli esseri umani il concetto di simbiosi viene usato quando c’è una stretta comunione di idee e interessi tra varie persone che vivono in pace tra loro, mentre i concetti opposti dello sfruttamento, dove uno vive a scapito dell’altro, e dell’antagonismo, dove uno vince e l’altro perde, sono sempre forieri di conflitti. In sostanza, essendo anche noi delle specie viventi che non possono esistere senza l’aiuto degli altri, soprattutto nella fase iniziale e terminale della nostra vita (o quando comunque abbiamo bisogno di assistenza) la competizione dovrebbe essere solo un aspetto marginale, sicuramente secondario, rispetto al bisogno di garantire la sopravvivenza e il benessere comune. E visto che ormai è chiaro a tutti che, come genere umano e a causa di tutte le emergenze planetarie in corso, o ci salviamo tutti insieme oppure non si salva nessuno, dovremmo agire tutti e di più in un modo cooperativo e mutualistico piuttosto che competitivo, sfruttatore e parassitario. Non è questo un concetto poi cosi complicato da comprendere e da spiegare, ma purtroppo oggi è diventato maledettamente difficile da applicare. La più stupida delle già di per sé stupidissime guerre in corso (cosi come per quelle del passato), non fa altro che confermare questa tremenda regola. Sappiamo tutti ormai che anche questa guerra è dovuta al controllo sui quei combustibili fossili del pianeta dai quali derivano quasi tutti i fertilizzanti sintetici che a loro volta servono ad aumentare sempre di più, in modo forzato e dannoso per il pianeta, i raccolti agricoli: non a caso l’azoto è il principale di questi fertilizzanti insostenibili. Ma visto il fatto che quando vengono lasciati in pace gli ecosistemi naturali sono in grado di rigenerarsi da soli, perché mai la stessa regola non dovrebbe funzionare anche per gli ecosistemi umani? La domanda è retoriaca perché infatti funzionano benissimo, purché si realizzino le condizioni giuste, quelle politiche, per farle funzionare: ovvio che la pace è al primo posto.
L’organizzazione americana The Industrial Commons (TIC), che ha come slogan “Work for the Common Good” (Lavoro per il bene comune) è strutturata proprio come un ecosistema naturale in versione umana. Nata nella piccola città di Morganton tra comunità indigena dei monti Appalachi, nella Carolina nord-occidentale, questa organizzazione si occupa di fondare e convertire ogni tipo di attività lavorativa in imprese sociali e di cooperative industriali di proprietà dei dipendenti con obiettivo politico ben preciso: quello di sostenere i lavoratori in prima linea per costruire una nuova classe operaia che punta a cancellare le disuguaglianze della povertà generazionale, a realizzare un’economia inclusiva e realmente circolare e a garantire un futuro per tutti. La sua struttura organizzativa è intenzionalmente ispirata ai modelli globali di ecosistemi cooperativi come quelli di Mondragon, in Spagna e in Emilia Romagna in Italia. Fondamentalmente il modello funziona con l’avvio di imprese sociali e di cooperative dei lavoratori che ricevono un prestito da un “fondo per il bene comune” erogato con particolari condizioni di vantaggiosità e che poi, una volta restituito, servirà ad avviare la cooperativa successiva: una sorta di simbiosi mutualistica concatenata tra le imprese già nate e quelle che verranno.
L’organizzazione conta di avere una disponibilità nel fondo “Capital for the Commons di oltre 5 milioni di dollari entro il 2030 e nelle possibilità di investimento sono entrati recentemente anche le case e i terreni di proprietà comune. Il cuore delle attività comunque continuano ad essere le industrie manifatturiere, soprattutto quelle tessili e dei mobili per arredo (quest’ultime molto diffuse nella zona) che per un motivo o per l’altro sono entrate in difficoltà. Invece di accettare passivamente gli eventi, i licenziamenti e la povertà conseguente, la comunità locale ha inventato questo formidabile modello economico che rimodella le attività attorno all’egualitarismo, al localismo e alla resilienza. Un tempo la Carolina del Nord era considerata la capitale del mobile degli Stati Uniti, ma in appena 10 anni, tra il 1999 e il 2009, ha perso più della metà dei suoi posti di lavoro nel settore. In buona parte, questo è stato il risultato delle scelte dei grandi produttori che hanno trasferito le loro attività all’estero, spesso dove i salari dei lavoratori erano notevolmente inferiori a quelli nazionali e quasi sempre senza alcun tipo di difesa sindacale.
TIC non cerca di sostituire le industrie esistenti, ma di rivitalizzarle facendo in modo che il lavoro e il salario che se ne ricava vada a vantaggio di tutti e dell’ambiente, non solo di poche persone. Le cooperative infatti offrono un approccio a livello di sistema per garantire che tutti traggano vantaggio da un’impresa, rispetto ai modelli imprenditoriali di sfruttamento che tendono a trattare i lavoratori come risorse da spendere per il proprio business. Si tratta di un meccanismo risolutivo anche in funzione dell’economia circolare perché le persone più vicine al processo produttivo e che conoscono benissimo le risorse del loro territorio, conoscono bene e meglio sia i problemi che e le soluzioni.
I lavoratori non sono solo una parte dell’azienda, sono la ragione per cui l’azienda esiste. La voce dei lavoratori è rivolta soprattutto all’impegno per il luogo, alla condivisione, all’equità razziale e alla sostenibilità ambientale, puntando a generare ricchezza partendo dalle risorse locali senza depredarle. Oggi in tutto il mondo l‘Industry Commons Ecosystem (ICE) comprende una comunità globale di oltre 7000 esperti con eccezionali conoscenze ed esperienze di banchi di prova dell’innovazione, nonché un approccio creativo alla risoluzione dei problemi e alle capacità di trasferimento tecnologico. Dopo oltre 7 anni di traduzione del pensiero in pratica, questa comunità di innovatori ha attraversato un notevole miglioramento delle competenze con metodologie all’avanguardia ed esperimenti rivoluzionari: esattamente come funziona un ecosistema naturale, ma questa volta in versione umana e umanizzante.
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