La definizione “Olio (o grasso) vegetale” è l’ingrediente che troviamo sempre più spesso negli alimentari e nei cosmetici. Pizze congelate, patatine, snack, barrette di cioccolato, biscotti, crostatine, creme spalmabili e un’infinità di altri dolci, e poi saponi, creme idratanti per la pelle e tantissimi altri prodotti ancora contengono questa misteriosa sostanza. Una definizione talmente generica e controversa che ha costretto l’Unione Europea ad imporre ai produttori di specificare in etichetta di quale olio si tratti. La norma è entrata in vigore a fine dello scorso anno a livello comunitario e riguarda in particolar modo l’olio di palma: un grasso saturo non idrogenato che con le sue 60mila tonnellate di produzione annua a livello mondiale è diventato ormai l’olio più diffuso al mondo. Questo anche grazie al fatto che si sta ampliando sempre di più il suo impiego industriale: l’ultimo della serie è quello come bio-carburante, una fonte energetica rinnovabile che però rischia di produrre più danni dei problemi che intende risolvere, a causa dei suoi elevatissimi costi ambientali. Dietro alla produzione di olio di palma infatti si cela un complesso mondo produttivo fatto essenzialmente di distruzione della Natura in varie forme: enormi sfruttamenti delle foreste equatoriali disboscate, uso massiccio di pesticidi e schiavizzazione dei lavoratori, per non parlare della produzione di armi di distruzione di massa. Come sempre più spesso accade, però, la stessa Natura ha già “inventato” una soluzione semplice e di facile attuazione. Partiamo prima dalla soluzione (anche se non ancora definitiva) e poi allarghiamo l’orizzonte sui problemi che essa potrebbe risolvere.
DAGLI SCARTI ORGANICI, FORSE L’ALTERNATIVA AL MASSACRO DI FORESTE
Un gruppo di ricercatori dell’Università inglese di Bath, guidati dai professori Rod Scott e Christopher Chuck, ha aperto una strada finora inesplorata nella ricerca usando dei lieviti per produrre sostanze oleose. In Natura i lieviti non sono altro che dei funghi formati da una sola cellula che si autoriproducono in presenza di zuccheri: in particolare, quelli utilizzati dai ricercatori britannici appartengono al ceppo Metschnikowia pulcherrima, conosciuto nella vinificazione di uve in Sud Africa, ma che si trova ovunque anche in Italia. In una vasca di 500 litri questi lieviti sono stati miscelati a sostanze organiche di scarto (cibo avanzato, rifiuti di industrie agroalimentari, paglia, ecc.): dopo circa un mese la miscela si era trasformata in un tessuto con un contenuto di grassi del 40%, i quali hanno proprietà (il profilo lipidico in particolare) molto simili a quelli dell’olio di palma. La produzione può essere attuata ovunque con grandi serbatoi a temperatura ambiente, non comporta particolari necessità di sterilizzazione dei locali (tranne qualche precauzione) e sofisticate tecnologie di attuazione; inoltre i ricercatori stimano che in questo modo potrebbe essere ridotto di 100 volte l’attuale uso indiscriminato del suolo per produrre olio dalle palme, a tutto vantaggio delle altre produzioni agricole.
… SE TUTTO VA BENE
Sono gli stessi ricercatori comunque ad essere prudenti, perché il risultato è stato ottenuto grazie ad un particolare processo bio-chimico dove non è chiaro se possa funzionare anche su vasta scala: occorrono ancora altre fasi di ricerca. In sostanza la strada per passare dalla fase di laboratorio a quella industriale è ancora molto lunga: l’espansione commerciale è prevista in tre o quattro anni. La prudenza è d’obbligo anche perché con tale sistema si andranno ad intaccare gli enormi interessi economici che attualmente girano intorno alla produzione di olio di palma. Ed è proprio qui che sta il rischio di una mancata evoluzione dell’alternativa appena illustrata. L’olio ricavato dai frutti delle palme del genere Elaeis guineensis attualmente ha un costo di mercato estremamente basso sostanzialmente perché non vengono calcolati i danni economici, ambientali e sociali determinati dalla sua produzione. A livello mondiale tale produzione riguarda un’estensione di oltre 30 milioni di ettari (un territorio grande quanto due volte l’Austria) ed è concentrata per 87% in Indonesia e in Malesia; nazioni dove per far posto a queste coltivazioni sono state distrutte intere foreste tropicali nelle quali vivono specie animali (oranghi, tigri, rinoceronti ed elefanti) che per tale motivo rischiano l’estinzione. Pare che proprio da questi territori e proprio grazie al fatto di ritrovarsi improvvisamente tanto cibo a disposizione si sia diffuso in Medio Oriente, in Nord Africa ed ultimamente anche in Italia il punteruolo rosso: il coleottero che si nutre proprio dell’olio linfatico di questi alberi e che ha ormai distrutto interi paesaggi del nostro Paese caratterizzati dalla presenza delle palme.
INGRASSA POCHI E SFRUTTA I POVERI
Non di certo migliore è la situazione in altre zone di produzione, nel resto del mondo, per quanto riguarda i diritti dei contadini: in Honduras ad esempio ci sono stati dei casi di sgomberi forzati, inclusi omicidi e attacchi violenti contro i rappresentanti delle organizzazioni contadine che si opponevano agli espropri forzati per far posto alle piantagioni di palme da olio. Un’operazione finanziata per l’ennesima volta dalla Banca Mondiale attraverso l’IFC (International Finance Corporation): una Banca che spesso è stata accusata di aver favorito operazioni economiche distruttrici della Natura e delle comunità locali a vantaggio delle multinazionali. Per verificare quali siano le effettive condizioni di produzione di questo prodotto in giro per il mondo recentemente il WWF ha promosso un’associazione (la Roundtable on Sustainable Palm Oil – RSPO) per la produzione responsabile di tale materia prima ma finora, aldilà di generici impegni (l’adesione è volontaria), di risultati se ne sono visti pochi.
UN AIUTO DALL’EUROPA: TOCCA A NOI SCEGLIERE
Tutto questo potrebbe presto essere superato dalla scoperta dei ricercatori inglesi ed attraverso il provvedimento dell’UE l’alternativa potrebbe avere un’opportunità in più anche grazie alle nostre scelte. L’obbligo scattato dall’inizio di quest’anno di indicare con quale olio è fatto un prodotto, ci ha dato uno strumento informativo in più per capire già dall’etichetta cosa c’è dietro: sta a noi ora fare la scelta anche se quelli fatti con olii alternativi all’olio di palma costano un po’ di più. In tal modo anche i produttori di questi ingredienti saranno costretti a cercare alternative più rispettose, oltre che delle popolazioni contadine, dei cicli naturali. Tra questi ultimi l’uso dei lieviti, per così dire, è già in “pole position”.
I PERICOLI PER LA SALUTE
L’olio di palma, così come l’olio di cocco, pur essendo un prodotto vegetale, ha un elevato contenuto di grassi saturi non idrogenati: in sostanza è molto simile ai grassi di origine animale. Attualmente è il prodotto più presente nei prodotti per la prima colazione (biscotti, brioches, barrette di cioccolato) e nelle merende per i bambini. Contiene così tanti grassi saturi da avere spinto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ad affermare che esso può contribuire ad aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, sulla base di ricerche definite come convincenti e confermate da studi successivi. Sotto accusa è l’acido palmitico, in grado di far salire i livelli del colesterolo ed innalzando i rischi di coronopatia.
PERCHÉ È COSÌ DIFFUSO?
Perché, per così dire, fa molto bene il suo “sporco” mestiere industriale. I derivati dell’olio di palma hanno una versatilità che si traduce in due caratteristiche principali: un punto di fumo eccezionalmente alto (235°C) e livelli molto elevati di saturazione trai suoi acidi componenti. Queste peculiarità rendono l’olio particolarmente adatto alle alte temperature che si realizzano con le fritture e con le cotture al forno. Altri olii vegetali, ad esempio l’olio di oliva, si avvicinano solo ad una di queste due caratteristiche, ma nessun altro le contiene entrambe e di conseguenza l’alternativa industriale attuale è quella di usare (con costi molto maggiori) due olii al posto di uno. Questo è il motivo per cui l’olio di palma è molto diffuso anche per la produzione di cibi per vegetariani e di alimenti biologici.
L’INGREDIENTE DEL NAPALM
La principale sostanza grassa contenuta nell’olio di palma (in media è il 43%) è l’acido palmitico che con l’acido naftenico (un derivato del petrolio) è stato utilizzato per costruire bombe e mine incendiarie, oltre ai tristemente noti lanciafiamme. Il nome Napalm infatti deriva da na-ftenico e palm-itico. Questo tipo di armi è stato usato per la prima volta in un conflitto bellico in Italia, durante la seconda guerra mondiale (prima a Salerno e poi a Bologna) ed è divenuto famoso con la guerra in Vietnam insieme all’agente Orange, il disseccante a base di glifosato prodotto dalla Monsanto, colosso dei pesticidi ed ogm. Prima veniva spruzzato il disseccante con gli aerei e poi i boschi venivano incendiati con queste bombe. Si pensava così di impedire all’esercito dei Vietcong di nascondersi nella foresta pluviale. Leggendaria è la foto di Kim Phuc, la bimba di nove anni, che fugge nuda e terrorizzata dopo un bombardamento al napalm che le aveva bruciato tutto: anche i vestiti. Una foto che più di mille manifestazioni pacifiste ha reso chiaro al mondo intero cos’è una guerra.