Le soluzioni economiche senza scopo di lucro sono gli unici percorsi praticabili per raggiungere gli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’ONU per i prossimi otto anni con la cosiddetta “Agenda 2030”. Ormai è chiaro che tali obiettivi non verranno mai raggiunti se si continua a proseguire solo con la vecchia logica del profitto personale (non quello generale) basato sulla predazione delle risorse umane e ambientali. Vale la pena ricordare in che cosa consistono i 17 obiettivi fissati dall’ONU nell’ormai lontano 2015 e che tutti i 193 paesi aderenti si sono volontariamente impegnati a raggiungere, sottoponendosi ad un processo di monitoraggio costante effettuato dalle stesse Nazioni Unite: 1) Porre fine ad ogni forma di povertà nel mondo; 2) Eliminare la fame e raggiungere la sicurezza alimentare per tutte le persone povere, in particolare per i bambini, migliorare la nutrizione e promuovere un’agricoltura sostenibile; 3) Assicurare condizioni di salute e di benessere per tutti e a tutte le età; 4) Fornire un’educazione di qualità, equa e inclusiva, e promuovere opportunità di apprendimento permanente per tutti; 5) Raggiungere l’uguaglianza di genere e migliorare le condizioni di vita delle donne e delle ragazze; 6) Garantire a tutti la disponibilità e la gestione sostenibile dell’acqua e delle strutture igienico-sanitarie; 7) Assicurare a tutti l’accesso alle forme di produzione di energia sostenibili, moderne, economiche ed affidabili; 8) Favorire una crescita economica duratura, inclusiva e sostenibile, la piena e produttiva occupazione e un lavoro dignitoso per tutti; 9) Realizzare infrastrutture resilienti, promuovere l’innovazione ed una industrializzazione equa, sostenibile, inclusiva e responsabile; 10) Ridurre le diseguaglianze tra le Nazioni e all’interno dei popoli; 11) Rendere le città e tutti gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili; 12) Garantire modelli sostenibili di produzione e di consumo; 13) Combattere urgentemente i cambiamenti climatici e le loro conseguenze sui territori maggiormente esposti; 14) Conservare e utilizzare in modo durevole gli oceani, i mari e tutte le risorse marine per uno sviluppo sostenibile; 15) Proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile degli ecosistemi terrestri, contrastare la desertificazione, arrestare il consumo di terreno, fermare la perdita della biodiversità; 16) Promuovere società pacifiche e più inclusive, offrire l’accesso alla giustizia per tutti e creare organismi efficienti, responsabili e inclusivi a tutti i livelli; 17) Rafforzare i mezzi di attuazione e rinnovare le collaborazioni globali per lo sviluppo sostenibile.
Per monitorare lo stato di avanzamento di questi obiettivi, gia nel 2012 l’ONU stessa ha creato l’High Level Political Forum (HLPF) che redige ogni anno un apposito Rapporto. Quello di quest’anno, dopo aver analizzato a fondo l’ulteriore impatto che ha avuto la pandemia da Covid 19 su tali Obiettivi, chiarisce definitivamente che alcune tendenze dei mancati progressi erano già presenti prima della diffusione del coronavirus nel mondo. Basti pensare che nell’ambito di ogni Forum annuale ogni nazione aderente può presentare un proprio Rapporto nazionale volontario, nel quale vengono illustrati e valutati i vari stati di avanzamento verso tali Obiettivi globali. Ma mentre alcuni paesi lo hanno già fatto due o tre volte, altri lo hanno presentato solo una volta alcuni anni fa e poi se ne sono “dimenticati”, mentre altri non ne hanno presentato ancora neanche uno: tra questi ci sono anche alcuni dei principali paesi emettitori di gas serra nella nostra atmosfera. Il risultato è quello di un impatto che proprio le Nazioni Unite definiscono “devastante” già a partire dall’obiettivo n. 1 (eliminare la povertà nel mondo): rispetto a quattro anni fa oggi nel mondo ci sono 93 milioni di persone in più che sopravvivono sotto la soglia della povertà estrema . Ma anche rispetto all’Obiettivo n. 2 (eliminare la fame e raggiungere la sicurezza alimentare) le cose sono sensibilmente peggiorate. Mentre i media di tutto il mondo si occupano quotidianamente solo della guerra in corso in Ucraina, nell’anno che sta per terminare c’è attualmente il maggior numero di conflitti armati e violenti rispetto alla fine della seconda guerra mondiale, con un quarto della popolazione globale (circa 2 miliardi di persone) che ora vive in Paesi in conflitto tra loro. Solo per questa causa e senza contare anche le vittime, in tutto il mondo oltre 100 milioni di esseri umani (una popolazione equivalente a quelle di Italia e Spagna messe insieme) sono state sfollate con la forza delle armi. In sostanza, le parole sono rimaste parole, le promesse sono rimaste promesse e per i fatti concreti bisogna ancora attendere un tempo che già da tempo non c’è più. A confermare questa amara realtà ci ha pensato uno studio pubblicato dalla rivista scientifica Nature la scorsa estate, nel quale si evidenzia la discrepanza tra “aspirazioni dell’Onu” e l’impatto dell’Agenda 2030 nel mondo reale, soprattutto a causa di uno scarso o poco efficace impegno dei governi nazionali.
Non c’è quindi da farsi molte illusioni sul fatto che gli Obiettivi dell’Agenda 2030 possano essere raggiunti in tempo per via politica e per questo in ogni paese è soprattutto la società civile che ci sta pensando e si sta organizzando. Le iniziative “a rete” per realizzare ovunque foreste, parchi, orti e giardini, soprattutto a fini alimentari e su zone abbandonate o degradate in ambito urbano, sono tra quelle più promettenti per raggiungere “dal basso” e senza scopi di lucro i medesimi Obiettivi dell’ONU. Quelle che più ci hanno incuriosito e colpito di più per elaborare questo articolo sono le attività degli “agricoltori della foresta Maya”, dei veri e propri giardinieri forestali che perpetuano nel Centro America una tradizione che esiste ormai da ottomila anni e che risale, per l’appunto, all’epoca della nascita della dinastia dei Maya. Questa attività viene portata avanti tutt’oggi dall’organizzazione senza scopo di lucro denominata El Pilar Forest Gardens Network (https://mayaforestgardeners.org/about/el-pilar-forest-gardens-network), che è attiva in molte zone del Centro America, in particolare nelle regioni del Messico sud-orientale, in Guatemala e nel piccolo stato del Belize, dove l’organizzazione ha una delle sue sedi principali.
Sostanzialmente la loro attività consiste nel concepire la foresta pluviale come un giardino, esattamente come la consideravano i popoli antichi prima dell’arrivo dei colonizzatori, coltivandola con cosiddetto “ciclo del Milpa” che trasforma a rotazione in orto-giardino delle piccole porzioni di foresta che poi, alla fine del periodo di utilizzazione a fini alimentari, tornano ad essere invase dalla foresta grazie al grande contributo fertilizzante apportato. Questo contributo viene apportato con dei parziali disboscamenti che permettono di trasformare il legname abbattutto in carbone vegetale (oggi definito anche “biochar”) che apporta nel suolo una quantità di nutrienti di molto superiore a quelle che vengono asportate con le coltivazioni agricole. In questo modo viene arricchito ulteriormente un terreno già di per se stesso fertile: l’esatto contrario di quando prevede l’ignoranza dell’attuale filosofia economica predatoria mondiale. Per questo l’organizzazione si preoccupa di riportare e insegnare alle nuove generazioni, fin dalla scuola dell’infanzia, i propri metodi di coltivazione. I giardinieri forestali Maya infatti sanno benissimo che il 90% delle pianti presenti nel mondo sono impollinate da animali come uccelli, api e pipistrelli. Ai tropici, l’impollinazione favorisce questi animali poiché solo il 2% delle piante si affida all’impollinazione del vento. Qualsiasi sia il tipo di impollinazione utilizzata per la riproduzione, in ogni foresta esistono le cosiddette “piante dominanti” che spesso coprono più di tre quarti delle aree interessate e che sono situate quasi sempre su tenneni in declivio piuttosto che in panuara (altro enorme problema planetario).
Queste piante dominanti si trovano ancora oggi proprio dove vivevano le popolazioni native e sono tutte utili perché i Maya selezionavano le piante di cui avevano bisogno durante la creazione del giardino/foresta. Si tratta della medesima tecnica di fertilizzazione adottata dalle antiche tribù dell’Amazzonia, la più grande foresta pluviale della Terra da decenni oggetto di un disboscamento distruttivo della fertilità originaria, e per mezzo delle quali si possono produrre da sempre, oltre al cibo e ai materiali necessari alla fabbricazione degli alloggi, anche sostanze utili per ottenere medicinali, digestivi, fibre tessili, veleni per insetti indesiderati, oli e lubrificanti, lattice, combustibili e tutto ciò che viene prodotto attualmente dai derivati delle risorse fossili. I giardinieri della foresta Maya quindi continuano ad aggiungere e raggiungere dal basso quegli stessi Obiettivi di sostenibilità che la politica promuove solo a parole. Non a caso queste foreste rimangono in assoluto il secondo luogo più ricco di biodiversità al mondo, preceduto proprio dalla foresta amazzonica, ma che al contrario di questa non subisce quel disboscamento sconsiderato, ormai divenuta simbolo del progressivo esaurimento delle risorse naturali e del degrado progressivo degli ecosistemi.
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