Quelle che si vedono nella foto di apertura di questo articolo sono diverse varietà, di diverso colore, di diversa forma e di diverso contenuto calorico dello stesso alimento. Sono tutte patate e sono coltivate in un solo paese: il Perù, dove ne hanno già catalogate un migliaio, ma si stima che potrebbero arrivare anche a 4mila. Se avete creduto durante una visita in Germania, magari dopo aver mangiato una mitica e indimenticabile “kartoffel salad” (insalata di patate), che quello è il paese originario del tubero oggi più consumato in tutto il globo terrestre, vi siete sbagliati di grosso. E se credete che le patatine fritte migliori al mondo, che consumate solo perché siete abituati a comprarle (surgelate) al supermercato o appena cotte in qualche friggitoria o in un “fast food”, vi sbagliate ancora di più. La stragrande maggioranza delle patate attualmente coltivate a livello mondiale provengono da un solo ceppo genetico che è stato selezionato proprio perché è facilmente lavorabile e trasportabile: per nessun altro motivo. E’ solo una varietà, anzi, la varietà che l’idustria agroalimentare globalizzata ha ritenuto più conveniente per la trasformazione e la commercializzazione: cioè tutto quello che serve per fare soldi, in sostanza, tranne che per fornirci di un buon nutrimento.
Le nostre patatine fritte di fatto sono una lezione sulla povertà culturale che si sta espandendo sempre di più a livello mondiale. Una storia che ci viene insegnata proprio dalle popolazioni indigene del Perù, gli Incas, che partendo dalla loro cultura millenaria sul cibo, hanno deciso di riscattare la loro condizione economica e sociale con la conservazione della biodiversità del cibo a loro più caro: le patate. E’ una storia che parte dal lago Titicaca (il lago più alto al mondo rispetto al livello del mare) nella catena delle Ande. Quasi quattromila anni fa le popolazioni indigene cominciarono ad addomesticare le piante selvatiche di un tubero che cresceva spontaneamente intorno a quel lago. In poco tempo scoprirono che disidratando le patate si poteva ottenere una sostanza chiamata chuño (una sorta di liofilizzazione della stessa patata e di atri tuberi di montagna), che permetteva di conservare il raccolto fino a 10 o anche 15 anni. Le patate coltivate dagli Inca erano e sono tutt’oggi molto versatili. Si possono bollire, schiacciare, arrostire, fermentare in acqua per creare il toqosh (un derivato appiccicoso ad uso multiplo e processato naturalmente anche con fini curativi). Si possono anche macinare e inzuppare per creare il cosiddetto almidón de papa (fecola di patate). Le patate peruviane erano la base alimentare di tutte le popolazioni Incas. Una base alimentare che aveva ragioni sanitarie e persino estetiche, oltre a quelle nutritive: un pò come per gli italiani è la dieta mediterranea. Le patate erano a tutti gli effetti, oggi lo possiamo stabilire con certezza, l’identità culturale delle popolazioni Incas. Poi arrivarono gli spagnoli e quel prezioso tubero fu importato prima in Europa (in Irlanda in particolare) e poi nel resto del mondo. Non per altro furono importate: perché le patate alleviavano la fame dei marinai, li aiutavano a sopravvivere nelle attraversate oceaniche e permettevano di sopportare, a quanto sembra, uno dei problemi tra di loro più diffusi (lo scorbuto – grave e prolungata carenza di vitamina C nell’alimentazione). Il resto è storia recente, ma resta il fatto che sempre di più gli agricoltori peruviani oggi coltivano diverse varietà di patate per preservare in primo luogo le loro tradizioni identitarie. Diverse comunità oggi commerciano varietà speciali di patate e le regalano per i matrimoni e le celebrazioni collettive. Ma questo è solo un esempio di ciò che sta avvenendo a livello mondiale.
La povertà genetica del cibo produce povertà culturale
Crediamo che i pomodori che vengono coltivati nel mondo siano solo di colore rosso e che non esistano melanzane di colore bianco? Beh, se la risposta è affermativa, vuol dire che il problema è lo stesso: in fatto di biodiversità alimentare siamo messi molto male. E probabilmente lo siamo anche sotto il profilo della biodiversità culturale. Questo perché è il cibo, il modo in cui lo otteniamo attraverso le coltivazioni agricole, il modo i cui lo prepariamo, lo trasformiamo e lo conserviamo, la vera globalizzazione, desiderabile e irrinunciabile, che deve essere perseguita e raggiunta nel pianeta chiamato Terra. Poi e solo poi, viene tutto il resto. E’ una questione che ci troviamo davanti tutti i santi giorni, anche se non ce ne accorgiamo. Per esempio con la domanda:“Oggi cosa cucino?” Sembra ormai diventata un’impresa, quella di inventarsi ogni giorno qualcosa di nuovo per uscire da una crescente monotonia alimentare che prevede ben poche varianti. I prodotti che mangiamo (industriali, per lo più) sono sempre più o meno gli stessi e quasi sempre con lo stesso sapore. Si sente continuamente parlare di abitudini sbagliate ed errori alimentari, che frequentemente contribuiscono a creare problemi sanitari diretti ed indiretti: problemi cardio-vascolari e obesità, in primo luogo. Causa ed effetti, derivanti da questa “monotonia” alimentare, fanno parte dello stesso problema. E allora, se almeno per un attimo ci ponessimo la stessa domanda, ma per il motivo diametralmente opposto? Tipo: “Oggi cosa decido di mettere in tavola, visto che ho troppe cose da scegliere?”
Non confondeteli con gli OGM, è tutta roba naturale
Dato che nella mia famiglia, ad esempio, sono tutti tifosi di calcio di fede “bianconera” (perché lo sono io, non per altro), ci immaginiamo di preparare una “parmigiana” con i colori della mia squadra del cuore, cioè con melanzane dalla buccia completamente bianca insieme alle tradizionali melanzane con la buccia nera? Oppure mettere in tavola un contorno con pomodori (maturi) gialli, verdi e marroni? Passare alla griglia dei peperoni (sempre quando sono maturi) di colore nero? Cucinare patate al forno che hanno la polpa (oltre che la buccia) di colore viola? Sgranocchiare una pannocchia di mais dai chicchi di un blu intenso? Diavolerie dell’ingegneria genetica? Organismi geneticamente modificati da qualche “scienziato” con la passione della pittura impressionista? No! è quello che ha già prodotto spontaneamente la natura e il suo strumento “operativo”: la biodiversità. Vale a dire quello straordinario patrimonio genetico creato dall’incrocio casuale, gratuito e del tutto spontaneo che viene scambiato quotidianamente tra varietà della stessa specie o naturalmente “contigue”.
Biodiversità: un tesoro fuori dai caveau delle banche
Molte associazioni di volontariato, che stanno crescendo di numero ogni anno, stanno preservando, recuperando e scambiando, senza fini di lucro lo straordinario patrimonio genetico che la biodiversità ci offre in tutto il mondo. L’idea è venuta inizialmente ad un gruppo di agricoltori e giardinieri americani che nel 1975 hanno fondato l’associazione “Seed Savers” (Salvatori di Semi), che hanno realizzato la “Heritage Farm” (la Fattoria dell’Eredità – intesa come patrimonio economico, ma soprattutto culturale) nella cittadina di Decorah nello Stato dell’Iowa e nella quale, ad oggi, hanno recuperato semi di circa 30.000 specie vegetali a rischio di estinzione. Fino a marzo di quest’anno ci scherzavano sopra questi sedicenti “salvatori di semi” sul valore della loro iniziativa. Se “il cibo è il nuovo oro” – scrivevano qualche anno fa – “come sostengono i guru di Wall Street, allora la Heritage Farm diventerà la nuova “Fort Knox” (la fortezza dove è custodita l’immensa riserva aurea degli Stati Uniti, ndr). Solo che a differenza di Fort Knox in quella fattoria non ci sono mai stati recinti e guardie armate per difenderla e pattugliarla; ci sono le Bald Eagles (“aquile cattive” note con il nome di Condor – tipiche di quella zona), i cervi, i procioni ed altri animali selvatici. E non servono autorizzazioni speciali e permessi per entrare, visto che la fattoria è circondata da chilometri di percorsi escursionistici che permettono di osservare, toccare e fotografare direttamente ogni pianta coltivata al fine di rinnovare il suo specifico patrimonio genetico. Ma nel frattempo la profezia si è avverata: i semi sono diventati più preziosi dell’oro. Dopo l’esplosione della pandemia del Covid19, la Heritage Farm (sempre di più la “Fattoria dell’Eredità) è diventata di fatto la nuova Fort Knox. La richiesta di semi “identitari” (ortaggi, frutta e fiori) ha superato in pochi giorni la possibilità di offerta. Nella stessa situazione si sono ritrovate tutte le organizzazioni che nel frattempo si sono diffuse nei continenti per fornire lo stesso tipo di servizio. A tutti i richiedenti, come una metafora sanitaria, è stata detta più o meno la stessa cosa: “Ci dispiace, ma dovete aspettare”: Di questa importante notizia, come sempre, non si è occupato nessun telegiornale.
Chiunque, comunque, potrà richiedere i semi gratuitamente
Malgrado la situazione contingente, presto o tardi il servizio dovrebbe tornare nella normalità. Queste attività vivono soprattutto grazie a donazioni spontanee. Per questo i semi “salvati” non vengono venduti, ma scambiati al costo della sola spedizione a chiunque ne faccia richiesta in tutto il mondo, al fine di recuperare e incrementare il patrimonio genetico globale. E’ stato così che, ad esempio, sono stati recuperati i semi originali di oltre 4.000 varietà di pomodori che allo stato di maturazione hanno diversi colori; noi siamo abituati a pensare che ci sono solo quelli di colore rosso, ma ce ne sono di colore giallo, verde (da non confondere con il frutto acerbo), bianco, bruno scuro (quasi nero), ecc… Esattamente come per gli esseri umani e per le altre specie viventi, anche le piante di pomodori hanno adattato il colore della loro pelle alle condizioni climatiche ed ambientali dove si sono sviluppate. Ipoteticamente (potendolo fare, ovviamente), decidendo di mangiare una varietà diversa di questa enorme biodiversità alimentare, occorrono circa 13 anni per togliersi lo “sfizio” di assaggiare tutti i tipi di pomodori conosciuti ad oggi. Ma poiché, nel frattempo sono stati recuperati anche i semi di oltre 1.200 varietà di peperoni, altrettante di melanzane (tra cui quelle bianche, appunto), 850 lattughe, 3.500 di fagioli, 200 di aglio, ecc., ci rendiamo conto che per toglierci lo “sfizio” di alimentarci di tanta “biodiversità”, per conoscere solo in parte la cultura alimentare della Terra, ci vogliono oltre 68 anni di pasti, assaggiando ogni giorno una varietà diversa delle piante salvate dai soli Seed Savers. Con le patate delle popolazioni Incas il calcolo si complica ancora di più e la cifra finale è impossibile da stabilire. E siccome , come accennato quì sopra, l’idea è stata ripresa ormai in tutto il mondo da decine di associazioni locali, ci dobbiamo mettere l’anima in pace: malgrado la nostra curiosità alimentare e culturale, c’è troppo da scegliere e non possiamo permetterci lo sfizio di assaggiare tutto ciò che esite durante la nostra vita. Resta però il fatto che una “parmigiana alla juventina”, ma anche una insalata mista “nero-azzurra”, una peperonata “milanista”, una bruschetta “giallorosa”, è già possibile portarla in tavola e senza alcun ricorso ad OGM. Così il problema alimentare e culturale quotidiano si capovolge: “Oggi cosa non cucino? Magari comincio dalle patate peruviane …”