Che questo sia uno dei momenti cruciali nella storia dell’umanità, ormai dovrebbero averlo capito tutti. Siamo come i passeggeri del Titanic, la nave considerata inaffondabile e che invece finì negli abissi dell’oceano proprio nel suo viaggio inaugurale. Una volta compresa la catastrofe che si sta per determinare (in quel caso fu l’affondamento, nel nostro è il disastro dell’insostenibilità dell’attuale modello economico mondiale) invece di tentare di salvarsi ognuno per conto proprio, dovremmo cercare di agire tutti in modo collaborativo, cooperativo e solidale per limitare al minimo i danni che comunque ci saranno. Ma nella realtà continuiamo ad assistere ogni giorno a delle scelte che producono ulteriore deterioramento e degrado di situazioni già molto compromesse. Ogni governo ha adottato una politica diversa nella priorità della salvaguardia della nostra salute a causa della pandemia e così ora dovremo affrontare il quarto inverno consecutivo con il rischio del contagio da Covid 19, mentre una guerra scoppiata nel centro dell’Europa per l’accaparramento delle ultime risorse fossili di energia, con la relativa presa di posizione tattica e di strategia militare dei governi, ha di nuovo messo in discussione la sicurezza alimentare sull’intero pianeta. Soprattutto la sostenibilità alimentare, una volta assoggettata a livello globale alla logica dell’individualismo, rischia di essere la classica piuma che con il suo insignificante peso fa collassare l’intero sistema.
Dai dati della FAO risulta che l’attuale produzione di cibo a livello mondiale, considerando solo i cereali, i legumi, le patate e altri pochi prodotti che garantiscono un buon apporto nutritivo, potrebbe consentire ad ognuna delle persone che attualmente vivono sulla Terra (7,9 miliardi di individui) oltre 1,5 kg di alimenti al giorno: quindi una quantità di molto superiore al fabbisogno individuale. Ma questa enorme disponibilità è solo teorica, perché nella realtà dei fatti sta crescendo sempre di più la quantità di cibo destinabile all’alimentazione umana che invece viene dirottato all’alimentazione animale, in particolare al bestiame da allevamento. Nei paesi che fanno parte dell’Unione Europea e nel settore specifico dei cereali, questa rapporto ormai è di 1 a 2: per ogni tre chilogrammi di prodotto solo uno diventa cibo per gli esseri umani mentre tutto il resto diventa mangime per gli animali. Vuol dire che mentre si parla tanto del grano dell’Ucraina che non viene esportato a causa della guerra provocata dalla Russia (paesi produttori cerealicoli rispettivamente del 2,29% e del 4,13% della produzione mondiale), il 53% dei cereali che verranno raccolti anche quest’anno su scala globale per la maggior parte finirà in pasto ai bovini e polli destinati alla macellazione e alla produzione di latte. Questo trend di consumo competitivo tra umani e animali è previsto in crescita del 2,6% su base annua, mentre allo stesso tempo è stimata in diminuzione drastica la produzione globale, soprattutto a causa del progressivo riscaldamento della nostra atmosfera: l’attuale estate nell’emisfero Nord del pianeta ne è la dimostrazione.
Ma come se non bastasse a questo doppio tentativo di suicidio che ha già di per se ottime probabilità di riuscire nell’insano intento, se n’è ormai aggiunto un terzo, ancor meglio congegnato: per adeguarsi agli stili di vita e di consumo occidentali la domanda di carne nel mondo già oggi è di gran lunga superiore all’offerta. Questo è uno dei principali motivi per il quale, già prima del 2020 e della pandemia da Covid 19, da almeno 5 anni si stava registrando l’aumento per morti per fame e denutrizione nel mondo, soprattutto bambini, dopo decenni di progressiva diminuzione. Si tratta di un fatto esclusivamente economico perché è diventato più redditizio per gli agricoltori vendere i cereali agli allevatori di bestiame, piuttosto che darlo ai produttori di pane nelle regioni del Corno d’Africa, cioè per destinarlo al sostentamento di popolazioni povere che già oggi anno un’alimentazione insufficiente e poco nutriente. L’affondamento del Titanic sta nella costante crescita delle produzioni agricole destinate a questo uso iniquo e insostenibile del cibo: le stesse produzioni che ormai coprono oltre il 70% dei terreni coltivati nel mondo causato proprio dal passaggio a questo stile di consumo alimentare nell’intero pianeta che ci ospita. L’alto consumo di carne è diventato ovunque lo “status symbol” globale per distinguere una classe sociale dall’altra. Basti pensare che il maggiore esportatore di bovini da macello oggi è l’India: paese dove la religione induista considera ancora le mucche come animali sacri. E del resto se in Cina sono già stati costruiti e messi in funzione edifici alti 9 piani per l’allevamento contemporaneo di 28mila scrofe suine, i cosiddetti “hotel per maiali”, c’è poco da meravigliarsi.
Un modello globale di sostenibilità alimentare invece dovrebbe andare nella direzione diametralmente opposta all’individualismo adottato da ogni stato, ma per far questo occorrono visioni politiche lungimiranti che promuovano collaborazioni, cooperazioni e alleanze a vari livelli, mettendo in campo e valorizzando le peculiarità economiche, ambientali, sociali e culturali di ogni singolo territorio. Se da un lato nei paesi occidentali i maggiori produttori sono le aziende di grandi dimensioni, dall’altro è indispensabile il sostegno all’economia degli agricoltori locali, dei piccoli produttori e del commercio locale nei paesi poveri, cioè di coloro che cocciutamente continuano a produrre la stragrande maggioranza del cibo sano, sostenibile e nutriente che arriva sulle loro tavole. Si tratta di modifiche facilmente implementabili nella vita quotidiana di tutti, perché già oggi l’agricoltura è il settore produttivo che maggiormente contribuisce a quella crisi climatica di cui poi è la prima vittima: basta ormai poco perché diventi la classica piuma del collasso sistemico di una struttura ormai da tempo è sovraccarica. Ed anche se ogni cambiamento politico richiede molto tempo per essere attuato, vista la quantità di attori e di interessi economici coinvolti, in questo caso possono essere i consumatori, con le loro scelte personali intelligenti a determinare la svolta.
Ce lo ha insegnato proprio il periodo del lockdown determinato dalla pandemia, durante il quale in tutti i paesi del mondo si è ridotto drasticamente lo spreco alimentare, si è prestata molta più attenzione ai cibi e ai menù più sani per la nostra salute generale, c’è stata una riorganizzazione generale delle offerte commerciali con i negozi e i ristoranti che si sono attrezzati per le consegne a domicilio, anche con prodotti locali e stagionali. Questo cambiamento a sua volta non va sprecato e deve diventare una forte pressione sociale per far adottare e attuare politiche pubbliche che mettano al centro gli stessi obiettivi: cibo sano, prodotto localmente nel rispetto dell’ambiente naturale e alla portata di tutti: cioè prodotti freschi che non richiedono condizionamento termico per il trasporto e la conservazione come frutta, verdura, legumi e anche pesce e carne (perché no) ma in una giusta misura. Allo stesso tempo le politiche pubbliche debbono disincentivare il consumo di alimenti che incrementano le emissioni di gas serra e alla lunga mettono in crisi la nostra salute: alimenti ricchi di calorie e di grassi saturi, bevande zuccherate e aromatizzate con prodotti chimici, preparati che stimolano una “fame indotta”, integratori di cuinon si conosce la reale necessità nutrizionale e altre diavolerie del genere.
Serve in sostanza un modello a su scala globale che ripensi alla base il modo di consumare il tantissimo cibo che c’è già a disposizione e che promuova una sorta di “solidarietà alimentare” tra le varie nazioni del globo, all’interno dei vari stati e tra le regioni e le città. Questo modello alimentare deve essere orientato verso consumi e acquisti di prossimità, che incoraggiano la produzione agricola e ittica su piccola scala, con adottano pratiche molto più sostenibili e che nobilitano il mondo rurale e il suo sviluppo, evitando lo spopolamento e quindi l’abbandono di terre e foreste: tutte attività fondamentali per il mantenimento dell’equilibrio degli ecosistemi e di quello del nostro pianeta. Altra strada non esiste, perché quando l’orchestrina del Titanic smetterà di suonare, significa che ormai sarà troppo tardi per tutti.
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