Sradicare la fame e la povertà dalla faccia della Terra era il più importante degli otto obiettivi che tutti i 193 Stati membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) si erano impegnati a raggiungere entro il 2015. Gli altri erano quelli di rendere universale l’istruzione primaria, garantire la sostenibilità ambientale, promuovere le pari opportunità tra i sessi, ridurre la mortalità infantile e quella materna, combattere le malattie molto diffuse (HIV, AIDS, tubercolosi e malaria), attuare uno sviluppo coordinato dei territori e dell’economia. L’accordo era stato siglato nel settembre dell’anno 2000 e per questo sono stati definiti “Obiettivi di sviluppo del Millennio” (Millennium Development Goals o MDG).
GOAL RINVIATI, ARRIVANO I POVERI
Arrivati alla scadenza dei quindici anni però ci si è accorti che questi traguardi erano ancora molto lontani e quindi, come spesso accade in politica, gli stessi Stati si sono dati altri quindici anni per raggiungerli. Nel frattempo gli obiettivi sono diventati 17, perché si sono aggiunti altri enormi problemi legati alla sostenibilità dell’economia (iniziando dalle fonti rinnovabili di energia), alla prevenzione della corruzione, alla riduzione delle ineguaglianze, alla pace tra i popoli e all’accesso all’acqua potabile. Proprio alla fine dello scorso anno, attraverso una conferenza mondiale tenutasi a Parigi, la Cop21, è stata definita anche una drastica lotta ai cambiamenti climatici in corso sul nostro pianeta.
Le stesse Nazioni Unite hanno stimato che per ottenere tutti questi bei proponimenti occorre una cifra colossale: almeno 2.500 miliardi di dollari l’anno, vale a dire circa 2.264 miliardi di euro. In teoria dovrebbero essere le nazioni più ricche a tirarli fuori, ma, come quindici anni fa, i fatti non sembrano seguire le intenzioni e gli annunci. Nella realtà sono le comunità più povere, quelle che stanno affrontando seriamente e molto meglio di quelle ricche questi necessari cambiamenti epocali. Ciò sta avvenendo grazie a lungimiranti operazioni di micro-credito messe in campo da organizzazioni umanitarie. Eccone alcuni significativi esempi.
I COLTIVATORI DI BANANE FILIPPINI
Era l’8 novembre del 2013 quando il super-tifone “Haiyan” devastò il settore centro-orientale delle Filippine. Furono colpite circa 14 milioni di persone, con oltre 10mila morti. Mareggiate con onde alte dai quattro ai sei metri colpirono 27 province in sei regioni. Si trattò della tempesta più forte nella storia di quel Paese, che, soprattutto nella provincia di Leyte, causò la distruzione di intere piantagioni di banane, campi di riso e fattorie produttrici di cocco, comprese le case, i magazzini e i mezzi di sussistenza dei contadini. Già prima del cataclisma quasi la metà della popolazione rurale della zona sopravviveva a stento sotto la soglia della povertà: il tifone in pratica aggravò notevolmente una situazione già di per sé gravissima. Tutti i terreni dell’area però erano e sono molto fertili e si prestano bene alle coltivazioni delle banane. È stato questo il presupposto in base al quale un’organizzazione mondiale per il micro-credito, la Oikocredit, ha deciso di finanziare una cooperativa di produttori di banane biologiche, che stava per iniziare il suo primo raccolto quando si era ritrovata con tutti gli alberi abbattuti in appena due ore. Il finanziamento è servito soprattutto a ricostruire e riparare gli edifici per la commercializzazione delle banane, perché malgrado tutto i contadini hanno potuto riprendere presto la produzione. Una produzione che però rischiava di restare invenduta a causa dell’assenza di infrastrutture. Al finanziamento, inoltre, era stato abbinato un programma pilota per la riduzione del rischio di danni provocati da catastrofi, con un’apposta formazione dei 25mila soci della cooperativa. Questa scelta è stata dettata dal fatto che di solito sono le persone a basso reddito, come i contadini e lavoratori agricoli, ad essere i più colpiti dalle calamità naturali. Si è trattato di una vera e propria formazione alla resilienza, che è la capacità di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà. Così i contadini hanno imparato a valutare quanto erano vulnerabili le loro produzioni e come riuscire a difenderle meglio. Sono stati così elaborati dei veri e propri piani di protezione civile, che hanno comportato il coinvolgimento di agenzie governative, scuole, chiese e servizi di emergenza. In modo del tutto casuale questa formazione alla resilienza è stata testata con successo pochi mesi dopo, quando le Filippine sono state colpite da “Ruby”: un altro fortissimo ciclone tropicale. I danni materiali, però, sono stati di entità decisamente inferiore e le coltivazioni in gran parte preservate. I contadini della cooperativa hanno potuto così guardare con fiducia al loro futuro e a quello dei loro figli.
GLI “ALPAQUEROS”
Negli ultimi dieci anni, gli effetti dei cambiamenti climatici hanno esasperato le difficoltà degli allevatori di alpaca nelle Ande del nord del Perù. Gli alpaca sono animali fondamentali per quelle comunità, perché soddisfano quasi tutte le loro esigenze quotidiane, permettendo loro di avere un reddito dignitoso. Questi animali producono il particolare tipo lana con cui vengono realizzati i variopinti indumenti delle popolazioni andine. Questa lana è molto pregiata, perché ha la caratteristica di essere molto più isolante, sia per il freddo che per il caldo, rispetto alla lana di pecora. Gli alpaca sono anche un importante mezzo di trasporto per le merci, per fertilizzare il terreno montagnoso con il loro letame e come fonte di cibo (carne, latte e formaggio). Negli ultimi anni, però, la maggior parte degli alpaqueros (allevatori di alpaca) hanno avuto problemi per il proprio sostentamento.
Le variazioni delle condizioni meteorologiche hanno comportato inverni molto freddi accompagnati spesso ad intense piogge impreviste e lunghi periodi di siccità, che hanno alterato le normali condizioni di irrigazione del terreno. Questi due estremi climatici hanno causato la morte delle mandrie e la distruzione delle colture di patate, l’altra principale fonte nutrizionale di queste popolazioni. Il numero di capi di bestiame era ormai arrivato sotto la soglia della redditività e per questo gli alpaqueros si sono resi conto che affrontare individualmente un problema così grande era impossibile; nel 2008 hanno deciso di dare vita ad una cooperativa che si chiama Coopecan.
In tal modo gli allevatori di alpaca hanno potuto fare “massa critica”, permettendo alla cooperativa di avere un potere contrattuale molto più elevato e poter garantire prezzi più equi. Il mercato infatti è dominato dagli intermediari (ci sono cinque o più passaggi tra il produttore e l’acquirente finale), che tagliano il più possibile i prezzi d’acquisto a vantaggio delle grandi aziende che utilizzano la materia prima. I tecnici della Coopecan, inoltre, hanno coinvolto gli alpaqueros per ridurre al minimo alcuni dei rischi dei cambiamenti del clima, selezionando gli alpaca più resistenti agli sbalzi climatici e in grado di produrre più lana. Sono stati realizzati dei ripari che proteggono gli animali dagli agenti atmosferici estremi e dei sistemi di irrigazione delle praterie dove pascolano gli animali, con accorgimenti che attenuano gli effetti delle precipitazioni imprevedibili.
La cooperativa attualmente ha più di 7mila soci, è attiva in sette regioni del Perù ed esporta il suo prodotto anche in Italia.
LA SOLUZIONE DEI CONTADINI PALESTINESI
I contadini palestinesi da sempre sono in lotta contro le restrizioni che causano la mancanza di acqua. Soprattutto in Cisgiordania (l’altra parte della Palestina è composta dalla Striscia di Gaza) i terreni sono molto fertili e una vasta varietà di frutta e verdura potrebbe essere facilmente prodotta se non ci fosse questo enorme problema. Un problema che limita gravemente la qualità della vita. Secondo l’Autorità nazionale per l’Acqua, nel 2011 il consumo medio domestico, urbano e industriale da quelle parti, era pari a 73 litri giornalieri pro capite, mentre il minimo raccomandato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) è di 100 litri al giorno. Questa situazione viene poi ulteriormente aggravata dal rigido controllo effettuato alle frontiere con Israele e l’Egitto per la commercializzazione dei prodotti freschi; senza contare la guerra dell’Isis che ha letteralmente strangolato la commercializzazione con la Siria.
I camion che trasportano frutta e verdura non sono refrigerati e quando sostano per lunghe ore sotto il sole, a causa dei controlli ai posti di blocco, quasi sempre i prodotti perdono la loro qualità, diventando non commercializzabili. Anche in questo caso la risposta è stata dalla cooperazione e dalla buona volontà, piuttosto che dalle autorità locali e internazionali. Vicino alla città Jenin, nel distretto di Hebron, un gruppo di organizzazioni non governative di tutti i continenti, tra le quali c’è anche la Caritas italiana, ha realizzato il MA’AN Development Center con l’intento di realizzare uno sviluppo sostenibile, basato sulla libertà e la partecipazione dei palestinesi, nel rispetto dei diritti umani, la democrazia e la giustizia sociale. All’interno di questa struttura è stato sviluppato un progetto di permacultura, un metodo di coltivazione agricola ispirato agli ecosistemi naturali, per la produzione di ortaggi biologici, miele e pesce di allevamento. In particolare si è puntato ad un particolare tipo di cavolo, denominato in lingua locale Kale, per la sua idoneità di crescita nelle particolari condizioni locali – la mancanza di acqua per l’appunto – e per il suo alto valore nutrizionale.
L’agronomo Wahbeh Asfour, il responsabile del progetto Kale, sostiene che questa iniziativa è una risposta al fallimento dei grandi progetti internazionali promossi dall’ONU. In attesa che gli “Obiettivi del Millennio” vengano raggiunti nei prossimi quindici anni, quindi, anche questo progetto è ormai una realtà.
Quegli aiuti flop calati dall’alto
Secondo la Banca Mondiale, circa tre quarti delle persone più povere nel mondo vivono in aree rurali. Molti di questi, dagli agricoltori ai lavoratori stagionali, si basano su attività su piccola scala per sopravvivere. I programmi internazionali di aiuti quasi sempre non considerano questa semplice realtà.