Ed eccoci di nuovo a parlare dell’inflazione che fa salire indiscriminatamente i prezzi, che danneggia le fasce più povere della popolazione e che fa aumentare la disoccupazione, soprattutto dei giovani. Colpa dell’ennesima guerra, ci dicono le fonti ufficiali dell’informazione, che ha fatto innalzare inaspettatamente il prezzo della fonte energetica di origine fossile, il metano, sulla quale si basa la maggior parte dei sistemi produttivi dei paesi più ricchi di questo pianeta. Dell’ulteriore contributo che in questo modo verrà apportato all’immissione di gas serra nella nostra atmosfera, probabilmente quello decisivo per l’irreversibilità del riscaldamento globale, ormai non ne parla più nessuno: con buona pace delle nuove generazioni che chiedono l’esatto contrario. Ma anche “in barba” agli impegni assunti dai governi degli stessi paesi a livello internazionale nella lotta ai cambiamenti climatici.
Non è la prima volta che succede un cosa del genere e probabilmente non sarà neanche l’ultima, anche se noi continuiamo a sperare che lo sia. Accadde ad esempio nel 1973 quando il prezzo del petrolio (la principale fonte energetica fossile in tutto il mondo in quel momento storico), iniziò improvvisamente a salire dopo quasi un quarto di secolo nel quale il prezzo era rimasto sostanzialmente invariato e che al massimo aumentava di pochi punti percentuali all’anno. Senza energia infatti, pulita o inquinante che sia la sua fonte, nessuna forma di produzione è immaginabile e pertanto non è possibile neanche mantenere i posti di lavoro esistenti e/o crearne di nuovi. In quel caso la colpa fu attribuita all’embargo dell’OPEC (l’organizzazione mondiale dei produttori di petrolio) e dei paesi arabi, ma già all’epoca la realtà era ben diversa da quella che poi fu raccontata ai cittadini. Due anni prima dell’embargo, i ministri addetti al petrolio dell’OPEC ebbero l’imbeccata proprio da un sostanzioso e dettagliato rapporto pubblicato dal National Petroleum Council (NPC): l’associazione dei produttori di petrolio degli USA. L’NPC, essendo composta proprio dai funzionari delle compagnie petrolifere statunitensi, era considerata molto attendibile da tutti gli osservatori internazionali, e quando fu proprio questa organizzazione, nel 1971, a prevedere che il prezzo del petrolio nazionale statunitense avrebbe dovuto salire esponenzialmente a partire dai due anni successivi. Quell’aumento esponenziale era considerato “necessario” se le stesse compagnie volevano mantenere costante il loro tasso di resa degli investimenti. Ovviamente anche i ministri addetti al petrolio del cartello dell’OPEC presero per buone queste valutazioni e adottarono gli opportuni provvedimenti per tenersi al passo. Attualmente, all’inizio dell’anno 2023, la situazione non è molto diversa perché proprio negli USA esiste da alcuni anni una grande disponibilità di gas naturale liquido (GNL) immagazzinato, che a suo tempo è stato estratto con la devastante tecnologia del “fracking” (vedi link articoli a fine pagina). E’ una disponibilità che ha molto a che fare con la guerra attualmente in corso tra Russia e Ucraina, ma anche questa non è una novità. Proprio negli Stati Uniti, circa 10 anni dopo la crisi petrolifera del 1973, alcuni stati del Midwest rimasero sprovvisti di gas naturale perché i produttori texani preferirono vendere il gas nell’ambito dello stesso Stato con un profitto extra di un dollaro ogni mille piedi cubi (circa 28,3 metri cubi), piuttosto che inviarlo negli stati del nord ad un prezzo controllato. La conseguenza fu il dissesto economico per moltissime attività e con ingenti perdite di posti di lavoro che, solo in fatto di salari, eccedevano di gran lunga il costo del combustibile che era venuto a mancare.
Nell’economia basata sulle fonti fossili quindi è inevitabile che quando aumenta il costo dell’energia aumentino automaticamente anche i prezzi dei servizi e delle merci, in particolare quelli dei beni di consumo quotidiano (il cibo e combustibili, prima di tutto) con impatti molto diversi tra le fasce più ricche e più povere della popolazione. Continuando con l’esempio degli Stati Uniti, ancora oggi il 20% le famiglie meno abbienti destinano il 25% circa del proprio bilancio per comprare prodotti di necessità e ad alto contenuto energetico; quel 20% che invece rappresenta le famiglie più ricche destina a questo stesso scopo solo il 5% del proprio bilancio. Ma c’è anche un’altro aspetto che il sistematico ricorso alle fonti fossili nella produzione di energia, il gas oggi come il petrolio ieri, risulta ancora più preoccupante rispetto alla fase congiunturale che stiamo attraversando.
Il prezzo crescente delle fonti energetiche nuoce gravemente all’economia e fa aumentare la disoccupazione anche a causa della sua incidenza sulla capacità di previsione degli investimenti. Chiunque intende fare un nuovo investimento industriale, anche un governo nazionale piuttosto che un imprenditore privato ha bisogno di una valutazione attendibile sui costi a lungo termine che avrà l’energia nel suo investimento. È questo il fattore determinante per stabilire se qualsiasi investimento si farà o meno. E quando il prezzo dell’energia ricavata da fonti fossili tende a salire in modo imprevedibile, o almeno a variare con oscillazioni non facili da programmare, è l’intero investimento che poi viene automaticamente annullato. L’esperienza già fatta ci dovrebbe inseganare molto in tal senso, ma pare che così non è. Nei 10 anni precedenti al 1973, l’indice del prezzo dell’energia negli USA aumentò al massimo di circa il 3,7% all’anno; negli anni 1973-1976 il tasso era del 25% annuo. Per gli industriali il problema non è tanto l’effettivo costo della fonte e della produzione di energia, perché, nella maggior parte dei casi, si può scaricare quel costo sul consumatore, … di solito anche un po’ maggiorato. Ciò che invece li mette in difficoltà gli investitori è il tasso di crescita, perché quando il tasso è già molto alto, è anche molto instabile, il che rende veramente imprevedibili i costi futuri dell’energia. E’ questa incertezza a determinare l’arresto e l’assenza di nuovi investimenti, determinando a valle la perdita di occasioni di lavoro.
Le energie rinnovabili invece determinano l’esatto contrario. A differenza delle fonti fossili di energia, le fonti pulite e rinnovabili ne stabilizzano il prezzo, rallentando l’inflazione e rendendo migliore la pianificazione degli investimenti, anche per creare nuovi posti di lavoro. Rendendo costante il flusso di energia ricavabile dalle fonti fotovoltaiche, eoliche, idriche, geotermiche, ecc., si stabilizzano e si rendono sicuri anche i relativi prezzi di produzione e di fornitura. Non seve una laurea in economia per capire il perché.
Primo, a differenza del petrolio, del gas, del carbone e dell’uranio estratti dai giacimenti, l’energia solare è rinnovabile: non si esaurirà mai (o almeno così si presume che accada nei prossimi miliardi di anni). Essendo rinnovabile, l’energia solare non è soggetta alla legge dei rendimenti decrescenti, il che significa che il suo prezzo diminuirà sempre di più nel prossimo futuro poiché i costi delle tecnologie di produzione e dei materiali tende ad abbassarsi progressivamente. Stabilizzando il prezzo dell’energia, l’energia pulita e rinnovabile stabilizza, riduce ed elimina anche la minaccia dell’inflazione, facilitando il compito di pianificare investimenti che ne implementano l’evoluzione. Del resto l’uso dell’energia rinnovabile non dipende da una singola tecnologia: alcune fonti sono più disponibili in un certo luogo, ed altre in altri luoghi. Queste fonti quindi, al contrario di una mastodontica centrale nucleare o a carbone, sono altamente flessibili e adattabili alle effettive necessità del territorio. I luoghi piú assolati sono i più idonei per la conversione dei raggi solari in energia elettrica, acqua calda e idrogeno (il combustibile che alimenta tutte le stelle dell’universo), mentre in altri la forma piú disponibile può essere il vento (che soffia perché il Sole scalda l’aria della superficie terrestre in modo non uniforme).
Nelle aree agricole, l’energia solare sarà disponibile sotto forma di biomassa (materia organica prodotta fotosinteticamente dalle piante verdi): letame, residuati agricoli o colture fatte apposta per essere convertite in metano e in alcool. Nelle aree boschive si può convertire in calore, sia direttamente che per trasformazione in gas, il legname in eccedenza, o anche coltivato allo scopo.
Tutte le tecnologie per la produzione di energia rinnovabile poi, anche sottoforma di combustibili, sono ormai ampiamente mature, collaudate e altamente competitive con le fonti fossili tradizionali da alcuni decenni. Le celle fotovoltaiche che oggi si usano in tutto il mondo e che alimentano satelliti e remote stazioni meteorologiche, già dopo la fine della seconda guerra mondiale erano comuni in Florida e in California: luoghi dove il paesaggio era solitamente punteggiato anche di piccoli mulini a vento per pompare l’acqua. Le piante produttrici di metano erano e sono coltivate in centinaia di migliaia di villaggi cinesi e indiani, mentre durante la seconda guerra mondiale si è fatto un uso estensivo di alcool prodotto dal grano e miscelato con la benzina per far funzionare gli automezzi. Naturalmente l’energia solare deve poter essere immagazzinata per essere usata di notte o quando il cielo è nuvolo. Questo si può fare ricorrendo alle batterie di accumulo, a serbatoi di alcool o di metano, a silos pieni di grano, a cataste di legname o a mucchi di letame: tutte cose già esistenti in ogni luogo del mondo. In poche parole: le energie rinnovabili sono più convenienti già da tanto tempo e lo saranno sempre di più nel prossimo futuro. Sono anche fonti pulite, lo sappiamo bene, che non determinano i disastrosi effetti dell’inquinamento e dei cambiamenti climatici. Sono cioè le uniche fonti in grado di stabilizzare i costi degli investimenti necessari per cambiare alla radice questo modello di sviluppo che ci sta portando alla catastrofe. Nei prossimi approfondimenti indicheremo come tutto questo sta già avvenendo (mancano solo le decisioni politiche) e come si può, e si deve, realizzare una vera transizione ecologica dell’economia sul pianeta Terra.
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