Ci viole prima di tutto la volontà politica. Un conto è lasciare che i nostri rifiuti finiscano in una discarica o in un termoinceneritore, un conto è ragionare su come farli tornare al punto di partenza. Il concetto di economia circolare sta tutto qui ed è un problema ormai solo culturale oltre che politico, non tecnologico. Riguarda soprattutto le metropoli e i centri urbani dove ormai si concentra oltre la metà della popolazione mondiale e dove, tra l’altro, si realizzano il 70% delle emissioni globali di gas serra. Ma per nostra fortuna, non occorre però che ogni città inizi tutto da zero. E’ necessario semplicemente che le amministrazioni locali facciano leva sulle migliori pratiche già esistenti in giro per il mondo: realtà che hanno già dimostrato di essere in grado di funzionare. Basta adattarle e possibilmente migliorarle in base alle proprie esigenze locali, seguendo le regole, a mero titolo di esempio, dell’organizzazione “Creative Commons”. In questa fase storica tra l’altro le città europee possono usufruire dei fondi stanziati con il programma “Next Gerneration EU”, per sostenere la transizione ecologica dell’economia. Si tratta di un’occasione importante per rafforzare anche le entrate fiscali a livello locale e per assicurare una ripresa stabile, sostenibile e duratura delle attività lavorative. I progetti quindi, oltre ad essere impostati secondo i princìpi dell’economia circolare, dovranno essere allo stesso tempo innovativi e replicabili. Questo perché ci si attende che i fondi stanziati, in particolare la parte finanziata a fondo perduto, saranno recuperati dal mancato costo che attualmente viene impegnato, in particolare, per smaltire i nostri rifiuti in discarica e/o nei termoinceneritori. Nell’economia circolare infatti, le catene di approvvigionamento dovranno essere impostate in modo che nulla vada sprecato. Qui di seguito alcuni esempi di come le amministrazioni locali, le imprese e i cittadini possono contribuire a creare una “città circolare”.
Ripensare l’uso dell’energia. Nella città di Ghent (Belgio) l’amministrazione comunale ha dato vita alla creazione di una cooperativa energetica, REScoop, attraverso la proprietà collettiva dei pannelli solari installati sulle case dei privati. I soci della cooperativa condividono l’efficienza energetica della struttura nel suo complesso in modo che anche le abitazioni con meno luce solare possano avere la stessa quantità di energia elettrica. Si tratta di un’applicazione pratica del concetto di democrazia energetica che nella città belga viene rispettato in base a 7 criteri: adesione volontaria e aperta, controllo democratico da parte dei soci, partecipazione economica attraverso la proprietà diretta, autonomia e indipendenza decisionale, educazione + formazione + informazione, consorzio e cooperazione con altre cooperative, considerazione e preoccupazione per le esigenze della comunità. Tutti i componenti della cooperativa partecipano ai profitti dell’impresa, di solito hanno la possibilità di acquistare l’elettricità ad un prezzo equo (vengono comunque consultati quando si stabilisce il prezzo della bolletta) e possono decidere dove la REScoop deve investire.
Riutilizzare, riparare e rigenerare gli oggetti rotti. Il Consiglio comunale di Brisbane (Australia) ha deciso di organizzare regolarmente laboratori dimostrativi per aiutare i cittadini, soprattutto i bambini, ad imparare le tecniche di riuso, riciclaggio, riparazione e rigenerazione dei oggetti di uso quotidiano che si sono rotti o sono andati fuori uso. Le attività dimostrative poi sono state estese anche alla condivisione di attrezzature e utensili di uso comune anche se sporadico e/o stagionale (trapani, seghe elettriche e a motore, tagliaerba, ecc.) ed è stato istituito anche il cosiddetto “shopping di seconda mano” dei vestiti che include persino un festival periodico con i migliori capi d’abbigliamento. Il numero crescente di iniziative e di collaborazioni delle organizzazioni di volontariato della città, hanno portato ad una drastica riduzione della quantità di rifiuti prodotta dalla comunità.
Rigenerare gli spazi pubblici. Fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso la città cinese di Shenzhen era una zona dove c’erano solo pochi villaggi di pescatori dislocati lungo il delta del fiume Pearl: oggi ci vivono 24 milioni persone ed una delle città più popolose del mondo. La spettacolare trasformazione dei luoghi è stata dovuta ad una sorta licenza concessa dal governo della Cina per operare come un super laboratorio economico, cioè un luogo in cui esplorare la promessa dell’economia di libero mercato. La crescita selvaggia della città ha comportato una serie di problemi economici ed ecologici perché tutta l’area interessata era ed è, sotto il profilo naturale, una zona paludosa. L’impermeabilizzazione del suolo ha cominciato a causare inondazioni diffuse e soprattutto durante le tempeste meteo la baia antistante la città subiva un forte inquinamento causato dalle acque reflue urbane non depurate. Le autorità locali hanno quindi deciso di trasformare l’intero centro abitato in una “città spugna”. Utilizzando tecniche che imitano la natura, le città delle spugne catturano, puliscono e immagazzinano la pioggia, riducendo il rischio di inondazioni e impedendo che i sistemi di drenaggio e trattamento delle acque reflue vengano sopraffatti. Tre anni fa una vecchia stazione sperimentale agricola abbandonata di 105 acri (circa 42,5 ettari) situata in una zona centrale e dove erano rimasti ormai solo due stagni di pesci e un boschetto trascurato di alberi di litchi, è stata trasformata in parco con tecniche di rigenerazione e ri-naturazione. Sono stati realizzati piccoli canali, stagni con giunchi autoctoni, pavimentazione permeabile e piccole ondulazioni che aiutano a rallentare e catturare il deflusso delle acque. Dentro il parco ci sono anche una biblioteca, un centro giochi per bambini e l’ufficio locale per la registrazione dei matrimoni.
Ridurre gli sprechi. Per ridurre al minimo e possibilmente eliminare il consumo di materiali e di energia e la generazione di rifiuti durante la produzione, l’uso e il fine vita dei prodotti, occorre che le città circolari devono progettare nuove infrastrutture e nuovi processi produttivi. L’amministrazione della città di Jaipur (India) circa 15 anni fa ha creato un consorzio di produzione, lo Jaipur Integrated Texcraft Park Private Ltd., per mezzo del quale vengono realizzati tessuti ecologici artigianali e tradizionali con strutture per la raccolta dell’acqua piovana che poi fino al 90% viene riciclata. Il consorzio è formato esclusivamente da piccole e medie imprese artigianali ed ha puntato già dall’anno di costituzione (2006) al risparmio energetico. Molta attenzione viene dedicata anche alle condizioni di lavoro degli artigiani con postazioni di lavoro dal design ergonomico, illuminazione adeguata, buona ventilazione e introducendo migliori rotazioni di lavoro, benefit per i dipendenti e salari equi.
Recuperare i materiali per nuovi cicli produttivi. Anche nelle nazioni più povere del mondo le città circolari permettono il recupero dei materiali a fine ciclo produttivo e di consumo, facilitando la loro reintroduzione nei processi produttivi. Un esempio del genere è la città di Quelimane (Mozambico) dove fino a poco tempo fa era alto il tasso di mortalità infantile, oltre ai decessi di minori sino ai cinque anni e delle gestanti. Grazie anche alla cooperazione italiana, dal 2019 l’amministrazione locale ha lanciato il progetto “Quelimane Limpa” per raccogliere i rifiuti organici di 11 mercati che poi vengono portati in un impianto di compostaggio locale e trasformati in compost da distribuire nei giardini e nei terreni della zona. Il progetto, che riguarda anche la gestione delle acque potabili e la depurazione, ha ottenuto il riconoscimento di buona pratica sul tema di sicurezza alimentare da parte dell’Unicef.
Per far conoscere queste esperienze a livello globale è stata lanciata recentemente una piattaforma, la ICLEI Circulars, che raccoglie le sfide, le priorità e gli interventi delle migliori pratiche lanciate dalle città nelle varie regioni del mondo.