Siamo abituati a pensare che solo le piante e gli arbusti da frutto hanno la capacità di produrre cibo per molti anni dopo aver raggiunto la maturità. Ma nella realtà esistono anche molti ortaggi e altre erbe commestibili che non devono per forza essere ripiantate ogni anno: ad esempio gli asparagi, i carciofi, molti tipi di cicorie (il radicchio) e di cipolle, di porri, di spinaci e di cavoli, il topinambur, il rabarbaro, l’aglio, le carote, le patate e almeno altre 60 specie di uso comune. Per le erbe spontanee citiamo solo a titolo esemplificativo l’ortica, il rafano, il crescione, l’erba cipollina, l’acetosa e lo scalogno. Complessivamente, a livello mondiale sono state censite fino ad oggi oltre 200 specie, ma il numero delle scoperte è in costante crescita. Naturalmente anche queste colture necessitano di lavori sistematici per la difesa dai parassiti e per il controllo delle erbe infestanti, ma comunque non necessitano di nuovi semi e reimpianti per dare produzioni pluriannuali. La cosa era ben nota da tempo ma recentemente, con la tecnica della permacultura, si è riscoperto che è possibile realizzare buone produzioni perenni anche dei cereali, in particolare per il grano. Queste sono pertanto colture alimentari per le quali è praticamente impossibile imporre la filosofia degli organismi geneticamente modificati, anche nella loro versione di nuova tecnica di ibridazione fatta al computer (NBT – New Breeding Techniques), che si basa proprio sulla “obbligatorietà” per gli agricoltori di acquistare ogni anno nuovi semi, con i loro prodottti chimici annessi, al fine di alimentare, non la popolazione mondiale, ma solo il grande business che li caratterizza e contraddistingue nella storia dell’umanità. Da questo punto di vista quindi, cioè quello dei grandi affari sulla produzione di semi ingnegnerizzate per l’agricoltura, le colture agricole perenni e la tecnica della permacoltura rappresentano una sorta di “nemico biologico” che devono essere limitati il più possibile dall’agricoltura industrializzata, perché potrebbero essere in grado di creare una produzione agricola realmente autosufficiente, raggiungendo anche i due Obiettivi per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite più importanti in assoluto: l’Obiettivo n. 2 (Fame zero in tutto il mono) e l’Obiettivo n. 3 (Buona salute e benessere per tutti).
Queste caratteristiche antagoniste però determinano automaticamente anche un grande interesse per tutti coloro che non vogliono sottostare alla logica delle multinazionali agro-industriali, proprio perché comportano una ridotta erosione del suolo, un minor apporto idrico, il rispetto per la fauna selvatica e, soprattutto, una drastica diminuzione della dipendenza dai fertilizzanti, erbicidi e pesticidi chimici ottenuti dal petrolio e dal gas naturale: le stesse risorse fossili che stanno facendo schizzare alle stelle i prezzi dell’energia e delle derrate alimentari a causa della guerra in corso in Ucraina. L’agricoltura industriale attuale infatti impone di coltivare le colture annuali su grandi estensioni e in totale isolamento rispetto alle altre, utilizzando poi imput esterni all’azienda e al suolo coltivato per sostenerne la produzione. E’ un metodo di coltivazione alla lunga “suicida” che innesca un circolo onomico-ecologico regressivo dove a rimetterci è in primo la fertilità dei terreni stessi, con conseguenze a catena che poi ne peggiorano sempre di più la capacità produttiva.
Per realizzare le colture annuali occorrono le lavorazioni dei terreni prima di effettuare la semina. In questo modo si estraggono le radici e gli steli delle piante ancora vive (che però non vengono eliminate del tutto) e si perde una parte consistente dei nutrienti che vi si erano accumulati grazie all’azione della microfauna e della microfauna terricola: sorge così la necessità di utilizzare i dissecanti e i fertilizzanti. Proprio i fertilizzanti però devono essere resi idrosolubili per essere assorbibili dalle piante, ma in assenza o carenza dei microbi simbionti (e più in generale dell’humus organico) il terreno perde la sua naturale consistenza spugnosa: si determina così l’impossibilità per gli stessi terreni di assorbire e trattenere la tantissima acqua che serve per solubilizzarli. Nascono di conseguenza per le aziende agricole altre due necessità: quella di dotarsi di un approvigionamento idrico con acque di falda o di superficie e quella di attrezzarsi con un impianto di irrigazione che sia il più potente possibile. La troppa acqua distribuita a sua volta comporta l’erosione del suolo e della fertilità spontanea residua, oltre che delle fertilizzazioni apportate e non utilizzzate dalle piante. L’eccessivo apporto nutritivo e ormai divenuto “indigeribile” determina poi i noti problemi di inquinamento per gli habitat acquatici. A completamento del ciclo regressivo arriva infine il peggioramento delle condizioni ambientali generali (dei cambiamenti climatici in particolare), che determinano un clima sempre più caldo e che scatena la necessità di ulteriori aumenti di irrigazioni: il classico cane che si morde la coda. Fortunatamente, scienziati e agricoltori negli ultimi decenni si sono messi a cercare nuovi modi per coltivare il cibo di cui il mondo ha bisogno senza perseverare in questi madornali errori.
La chiave di svolta c’è stata quando si è cercato di capire come funzionano gli habitat delle praterie, dove il grano e il mais ricrescevano spontaneamente ogni anno in terreni che erano diventati ricchi di fertilità. A differenza delle nostre colture di grano, che sono annuali, la maggior parte delle piante delle prateria sono perenni. Ciò significa che dopo aver prodotto i semi, le loro foglie si seccano e cadono, ma le loro radici rimangono vive nel sottosuolo. Nella stagione successiva, le radici sane producono nuovi germogli e continuano a crescere più grandi e più profonde, mentre le piante sviluppano nuovi steli e foglie, sviluppando e portando a maturazione altri semi. Le radici viventi assorbono l’acqua, trattengono il terreno e prevengono l’erosione. Le foglie e gli steli vecchi vengono scomposti da microbi simbionti, che aiutano le piante ad assorbire i nutrienti. In cambio, le piante producono e inviano zuccheri lungo le loro radici sempre più profonde che a lro volta nutrono i microbi e aiutano ad aumentare le loro popolazioni. In questo modo, le piante perenni costruiscono costruiscono un ciclo virtuoso perfettamente auto-sostenibile che include la prevenzione dell’erosione e dell’inquinamento idrico. Nella valutazione ecosistemica rientra anche il grande vantaggio climatico derivante dal sequestro e dall’immagazzinamento del carbonio atmosferico. Studiando la diversità delle praterie, in sostanza, gli scienziati hanno appreso quali tipi di piante svolgono un ruolo nel mantenere il sistema delle praterie autosufficiente. L’esempio più classico, che riportimo spesso negli approfondimenti illustrati su questo sito, è quello dei batteri azotofissatori che si sviluppano in simbiosi con le colture leguminose. I fiori di alcune erbe inoltre attirano gli insetti impollinatori che visitano e impollinano anche molte altre piante rispetto a quelle coltivate. Le erbe perenni infine producono radici profonde, mobilizzando in forma organica ulteriori elementi nutritivi che arricchiscono il suolo.
E’ ormai consapevolezza comune nel mondo scientifico che se l’agricoltura può imitare questa combinazione di tipi di piante e sviluppare tipi di cereali perenni, forse possiamo coltivare cibo a sufficienza per tutta l’umanità, ripristinando allo stesso tempo anche la capacità delle praterie di utilizzare acqua e sostanze nutritive in modo sostenibile.
Le piante perenni però ci danno anche delle lezioni che potremmo definire quasi psicologiche, prima ancora che politiche. Queste piante affondando le loro radici in un posto dove hanno potuto e possono ancora farlo nel ciclo della loro vita per esprimere al massimo le loro potenzialità. Sanno perfettamente che nutrendosi di ciò che gli serve, diventeranno a loro volta un buon nutrimento per altri esseri viventi. Sanno ancora meglio che non esiste alcun confine geografico che possa limitare questa loro potenzialità. Sanno che le loro radici, ovunque abbiano la possibilità di attecchire e ri-attecchire in caso di migrazione, rappresenteranno per sempre la loro identità, caratteristica della loro specificità e unicità. Ma sanno anche che questa identità non sarà mai un elemento di conflitto o un valore d’uso, ma solo ed esclusivamente un valore di scambio, di reciprocità e di convivialità con tutte le altre specie viventi. Avendo già affrontato crisi climatiche ben più pesanti di quella attuale provocata dalla miseria umana in un modo così sconsiderato e repentino, i sistemi naturali hanno una resilienza autonoma verso tutte le perturbazioni che la nostra specie potrà determinare in futuro e per questo sono in grado di autoregolarsi di conseguenza. Perenni e cooperanti pur nella propria diversità e specificità: un ciclo lezioni alle quale gli esseri umani, in particolare il genere maschile, dovrebbe essere iscritto d’ufficio il prima possibile.
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