Con la pubblicità e i tanti soldi del post Covid 19, i grandi inquinatori del pianeta stanno cercando di diventare i nuovi paladini dell’ambiente. Lo hanno sempre saputo che alla prova del tempo i loro cicli produttivi, basati soprattutto sull’usa e gaetta, sul qui ed ora, non avrebbero avuto alcun un futuro. Ma i tempi cambiano le situazioni e le percezioni dei consumatori. Con la nuova coscienza ambientalista sviluppata soprattutto dai movimenti Fridays For Future, nessuno può più ignorare che è proprio questo modello produttivo che sta determinando il cambiamento climatico, la distruzione della biodiversità e l’estinzione delle specie sull’unico pianeta che abbiamo a disposizione, in attesa che Elon Mask renda abitale il pianeta Marte, passando prima per la Luna. Oggi praticamente non esiste più alcun prodotto che non venga fatto apparire come naturale, biologico e/o biodegradabile, senza sostanze chimiche di sintesi, rispettoso degli animali e della Terra, sano, a base di erbe, non tossico, organico, riciclabile, riutilizzabile, sostenibile e rinnovabile. Ma a ben vede a commissionare queste pubblicità sono grandi gruppi imprenditoriali che hanno fatto dell’insostenibilità, imposta alle popolazioni locali spesso anche con l’uso delle forze dell’ordine, il loro cavallo di battaglia fino a ieri. E’ il caso ad esempio di un gruppo energetico italiano, Sorgenia, che pur di costruire una centrale elettrica turbogas nel Comune di Aprilia (Provincia di Latina), non ha esitato ad utilizzare l’esercito per sgomberare il presidio territoriale degli attivisti che ne volevano impedire la costruzione. Il fatto è avvenuto alcuni anni fa quando ormai era imminente il decollo delle fonti energetiche rinnovabili in tutta Europa: la società che ha voluto a tutti i costi quella turbogas è poi fallita ed è stata rilevata dal pool di banche che l’avevano finanziata. Ora la loro pubblicità, che vede protagonista una celebre campionessa delle para olimpiadi, dice che “se tutti guardiamo più lontano ci avviciniamo ad un mondo migliore… Capisci la figata?”
Secondo un recente rapporto dell’organizzazione TerraChoice Environmental Marketing, il 98% dei prodotti con il marchio verde sono in realtà “greenwashed” (dipinti di colore verde): una tattica di comunicazione ingannevole usata dalle grandi marche per ingannare, fuorviare e distogliere i clienti dalla vera essenza dei loro affari e di come i loro prodotti e servizi impattano sugli ecosistemi. Vere e proprie bugie ripitturate di verde che attraverso apposite campagne pubblicitarie trasformano i loro prodotti in qualcosa che non sono mai stati: alimenti, servizi, beni di consumo e oggetti completamente ecologici e sicuri per l’ambiente e la nostra salute. In sostanza, qualcosa che risulta molto desiderabile anche sotto il profilo etico e della sostenibilità, magari a favore delle generazioni future. Il bello è che non è neppure una novità: quella di “taroccare” la realtà con false informazioni all’utenza è una prassi che vanta una lunga tradizione.
Ricordate la campagna pubblicitaria della Volkswagen sul fatto che le macchine con motore diesel non erano poi così inquinanti come certe ricerche scientifiche volevano far credere? Si è scoperto poi che negli USA la casa automobilistica tedesca aveva inserito su 11 milioni di auto dei particolari dispositivi per ingannare i test di collaudo sulle emissioni. In realtà quei motori inquinavano 40 volte di più rispetto ai limiti imposti negli Stati Uniti, così l’azienda ha dovuto pagare 14,7 miliardi di dollari per evitare le cause giudiziarie intentate dai loro clienti per aver imbrogliato i test e aver effettuato una pubblicità ingannevole.
Altra operazione di greenwashing è stata quella della compagnia aerea EasyJet. In una pubblicità del 2008 aveva affermato che i suoi aerei emettevamo molta anidride carbonica in meno (il 22%) rispetto alla concorrenza, considerando la stessa tratta di volo. La cosa sembrò subito strana perché i mezzi di trasporto erano gli stessi e non risultava che questa compagnia avesse richiesto particolari modifiche “ambientaliste” ai costruttori. In realtà il calcolo era stato effettuato su ogni singolo passeggero trasportato e siccome gli aerei EasyJet trasportavano più passeggeri degli altri, grazie anche ad una politica di prezzi molto bassi sui biglietti, si è così scoperta la furbata pubblicitaria.
E cosa dire dei 1.045 i cadaveri estratti dalle macerie del Rana Plaza, l’edificio-fabbrica di Savar, alla periferia di Dacca in Bangladesh avvenuto nel 2013? Era un agglomerato fatto di un’infinità di laboratori tessili dove erano stipati più di 3.000 lavoratori, pagati con meno di 30 euro al mese (un euro al giorno) per cucire vestiti 12 ore al giorno, in condizioni al limite della schiavitù. La maggior parte delle aziende di abbigliamento committenti dichiaravano ai clienti che materiali usati erano “naturali” o “riciclati” mentre in realtà i costosissimi vestiti “griffati” così ottenuti venivano confezionati per mezzo delle peggiori condizioni di sfruttamento umano e lavorativo.
E con questi precedenti, vista anche la faticosa uscita dall’emergenza sanitaria in corso, è altissimo il rischio di ritrovarci domani nel ruolo di dottori gli stessi soggetti che fino ad oggi hanno causato le attuali emergenze planetarie. In ballo ci sono i 750 miliardi di euro messi in campo dall’Unione Europea con il programma “Next Generation Ue”, ma anche il “grande piano verde” da 2 mila miliardi di dollari lanciato recentemente dal presidente USA Joe Biden. Una montagna di soldi che dovrebbe permette la tanto attesa riconversione ecologica dell’economia mondiale e che speriamo non vengano sprecati ancora una volta con produzioni insostenibili, per di più mascherate da una gigantesca ondata di “bugie verdi”. Un’operazione del genere è già partita con la rivalutazione dell’energia nucleare come possibile fonte di produzione dell’idrogeno. Noi ce lo aspettavamo e l’abbiamo già segnalata con questi articoli:
La finta ecologia dell’idrogeno “verde”
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