Periodicamente si riempiono intere pagine di giornali sul fatto che una grande quantità di cibo viene sprecato senza mai essere consumato. Anche noi ne abbiamo parlato spesso su questo sito (vedi link a fondo pagina). Di tanto in tanto si trova qualche informazione sul fatto che quel cibo che non arrriva mai alla bocca di qualcuno ha richiesto comunque un grande sforzo economico ed ecologico per essere prodotto. Poca o nulla attenzione invece viene dedicata ai costi economici che ogni comunità deve comunque affrontare dopo che il cibo ancora perfettamente commestibile viene automaticamente trasformato in un rifiuto; cioè in qualcosa che può essere dannoso per l’ambiente, la vita e la salute umana invece che per migliorarne la qualità generale e personale. Già di per sé questa è una vergogna epocale nella storia dell’umanità, ma questo è nulla in confronto ai costi che oggi si devono affrontare per rendere “non dannoso” il cibo sprecato, magari perché smaltito in una discarica o bruciato in qualche inceneritore. Questa vergogna diventa poi smisurata di fronte al fatto che da alcuni anni, proprio le popolazioni residenti nei paesi maggiormente responsabili di tale spreco (quelli occidentali e industrializzati), che vorrebbero rappresentare il modello di vita al quale tutti i paesi del mondo si dovrebbero adeguare, da alcuni anni vengono anche “ricattate” dalle continue richieste inoltrate per via televisiva per fare delle donazioni monetarie alle organizzazzioni umanitarie (anche quelle che fanno capo all’ONU), al fine di evitare la imminente morte di fame di milioni di bambini. Si tratta delle stesse popolazioni che sono state “educate” e abituate a sprecare il cibo, qualcosa che avrebbe fatto ribrezzo alle nostre nonne, perché con questa “maleducazione alimentare” si è persa (forse definitivamente) la connessione diretta tra il cibo e il faticoso processo che serve a produrlo.
Quì non stiamo dicendo che non si devono fare le donazioni per impedire che i bambini nati nei paesi poveri muoiano di fame (anzi, auspichiamo che tali donazioni aumentino sempre di più), ma vogliamo solo dimostrare quanto sia economicamente assurdo, oltre che eticamente vergognoso, lo spreco del cibo che avviene giorno dopo giorno nell’indifferenza generale. Semplicemente perché con questo spreco, esattamente come avviene con tutti gli altri rifiuti, continuiamo a pagare almeno sei volte gli stessi prodotti che non utilizziamo e che invece potrebbero salvare milioni di vite umane già da domani ed arrivare persino ad eliminare la fame nel mondo entro pochi anni. E’ di questi costi che, prima ancora di chiedere le donazioni, si dovrebbe parlare prioritariamente il più a lungo possibile al fine di “ri-educare” le persone per evitare di continuare a perpretare questo spreco. Evitando questi costi, da un lato si rende disponibile una grande quantità di cibo così faticosamente diventa nutrimento (e non più un rifiuto), mentre dall’altro si libera una quantità enorme di denaro che potrebbe essere destinato proprio a tirar fuori le popolazioni che soffono la fame nel mondo dalla situazione attuale. A fare i calcoli non ci vuole molto, basta sapere dove andare a trovare le informazioni.
Partiamo dalla considerazione generale e largamente diffusa sul fatto che lo spreco del cibo rappresenta in fondo solo una piccola e involontaria perdita di denaro che ci capita di tanto in tanto. In effetti, quando ad esempio decidiamo di buttare via una mela di calibro medio (circa 150-200 grammi) anche se solo una piccola parte è bacata, viene quasi spontaneo pensare che stiamo buttando via solo la cifra esigua che è servita per acquistarla, cioè circa 30 centesimi di euro. Con questo prezzo si considerano già pagati (anche se nella realtà non è così) tutti i costi ambientali, sociali e commerciali che sono serviti a produrre quella mela che, come per tutte le varietà della specie, è composta all’85% da acqua. Nel calcolo per la verità andrebbero conteggiati altri importanti fattori di costo che non vengono mai evidenziati. Il primo è il tempo che abbiamo impiegato per andare a comprare quella mela nel punto vendita preferito, per poi portarcela a casa con un veicolo privato: un sondaggio effettuato negli Stati Uniti alcuni anni fa ha rilevato che le persone trascorrono dalle quattro alle cinque ore al mese (circa 2,5 giorni l’anno) per fare la spesa del cibo che finisce poi nella spazzatura.
Anche se con un margine di valutazione elevato dobbiamo poi stimare il costo del carburante utilizzato nel trasporto presso la propria abitazione. Possiamo stabilire comunque con una buona approssimazione in 5 centesimi di euro questi due altri costi. Soprattutto d’estate e per tentare di conservare più a lungo possibile quella stessa mela poi, una volta collocata a casa dentro un frigorifero con volume di medie dimensioni di circa 200 litri e a quattro scomparti (congelatore escluso), consumeremo una certa quantità di energia elettrica nell’arco di due o tre settimane. Considerando i prezzi medi dell’energia negli ultimi 5 anni nei quattro paesi europei più popolosi, significa aggiungere al conto altri 7 centesimi di euro. Una volta diventata rifiuto infine quella povera mela, essendo materia organica in fase di decomposizione, sarà oggetto del costo per la raccolta, trasporto e smaltimento/trattamento presso gli impianti autorizzati, che corrisponde, grosso modo, ad altri 4-5 centesimi di euro.
Ma siccome ogni materiale organico durante la decomposizione produce metano (un gas serra molto più dannoso della CO2), quando la mela-rifiuto viene smaltita in discarica, occorre spendere altri soldi per bruciare quel metano prima che finisca in atmosfera. Facendo la somma complessiva di tutti i costi aggiuntivi e sommandoli a quello di acquisto, ogni mela non consumata e buttata nella spazzatura ci viene a costare non meno di 0,45 euro, cioè oltre 2 euro al chilo. Ora, una volta stabilito questo puntuale costo complessivo su un chilo di mele possiamo estendere il ragionamento a tutto il cibo ancora commestibile che viene buttato via nel mondo e che corrisponde, in base a stime effettuate da agenzie indipendenti (Food Sustainability Index), a non meno di 750 miliardi di euro l’anno. Anche se si riferisce al solo costo di acquisto (mentre il costo effettivo è molto più alto, come abbiamo visto) è questa la cifra della vergogna di cui parlavamo all’inizio perché con questa stessa somma ci si possono comprare circa 2.500 miliardi di dosi di cibo terapeutico per bambini malnutriti, che corrisponde grosso modo ad una dose al giorno per ogni abitante attuale della Terra. Cibo già pronto fatto di pasta d’arachidi, proteine del latte ed altri elementi ad alto valore nutritivo: lo stesso cibo “salvavita” (cosiddetto RUTF – Ready to Use Therapeutic Food) che le organizzazioni umanitarie ci propongono di acquistare attraverso le donazioni. Ripetiamo: questi sono i calcoli che abbiamo fatto con le cifre ufficiali fornite delle istituzioni internazionali e di facile accesso.
Del resto già quasi 18 anni fà, in occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione (16 Ottobre 2005), il Relatore speciale nominato dalle Nazioni Unite sul diritto universale di accesso all’alimentazione (lo scienziato svizzero indipendente Jean Ziegler) aveva dimostrato che già all’epoca costava solo 0,25 euro fornire 2.100 calorie ogni giorno ad ogni persona denutrita. Ma siccome le organizzazioni internazionali che si occupavano e tutt’oggi si occupano della fame nel mondo si trovavano in forte deficit, il traguardo per fornire quel fabbisogno calorico minimo giornaliero si allontava sempre di più. Già all’epoca si era dimostrato che la produzione mondiale di cibo era in grado di sfamare 12 miliardi di persone, cioè 4 miliardi di persone in più di quelle attualmente ospitate su questo malandato pianeta. Ecco spiegato come eliminando gli sprechi alimentari, al posto della “vergogna epocale” che abbiamo sotto i nostri occhi, si potrebbe realizzare il più grande affare dell’umanità. Se e quando mai accadrà, non lo possiamo sapere, ma intanto continuiamo a dimostrare che un’altro mondo è possibile.
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