Azzerarne le emissioni e catturare il carbonio in eccesso già immesso nell’atmosfera è la sfida globale finale che dovrà essere vinta nei prossimi anni. Ma mentre i leader politici mondiali continuano a latitare rispetto alle loro responsabilità sia per affrontare che per risolvere il problema (incapacità confermata anche dalla recente Conferenza del COP27 di Sharm el Sheikh, in Egitto), si moltiplicano giorno dopo giorno le proposte che provengono dal mondo scientifico, dall’innovazione imprenditoriale e dalle organizzazioni di volontariato. Queste proposte però appaiono molto disomogenee e spesso indicano ipotesi di lavoro che vanno sostanzialmente in due direzioni diametralmente opposte.
La prima può essere schematizzata come una sorta di “cattura forzata” del carbonio attraverso impianti tecnologicamente attrezzati, per poi riutilizzarlo come carburante o immetterlo nel sottosuolo da dove è stato prelevato sotto forma di petrolio, gas e carbone. Quest’ultima è l’impostazione teorica che ispirato la realizzazione in Islanda dell’impianto denominato “Orca”, il più grande impianto al mondo entrato in funzione lo scorso anno per aspirare l’anidride carbonica dall’aria e iniettarla in profondità nel terreno nella speranza di poterla mineralizzare e trasformarla in roccia. A pieno regime però questo impianto sarà in grado di assorbire appena 4mila tonnellate l’anno di CO2 che equivalgono alle emissioni di circa 870 automobili. I fautori del progetto stimano un costo iniziale tra i 600 e gli 800 dollari per tonnellata di CO2 che poi dovrebbero scendere a circa 100/150 dollari quando la tecnologia si sarà affermata a livello mondiale: ammesso che questo possa succedere vista la particolare conformazione geologica dell’Islanda e la sua larghissima disponibilità di energia geotermica a basso costo. Attualmente nel mondo di questo tipo di impianti ce ne sono in funzione una ventina con una capacità di aspirazione complessiva di 40 milioni di tonnellate l’anno, che però rappresentano un insignificante 0,1% delle emissioni globali totali annue.
La seconda ipotesi di lavoro appare molto più semplice perché parte da un ordinario ragionamento bio-logico: insieme all’acqua l’anidride carbonica, detta anche CO2, è un fattore essenziale per la crescita di ogni vegetale che esiste sulla Terra per mezzo del sole. E’ il processo della fotosintesi clorofilliana che poi produce ossigeno sotto forma di rifiuto – “non rifiuto” (sembra strana la definizione, ma è così, perché i rifiuti in natura non esistono). Oltre alle piante e alle erbe, come noto tra questi “mangiatori” del più diffuso gas serra oggi presente nell’atmosfera ci sono le alghe, che a loro volta sono dei nutrienti ricchi di acidi grassi essenziali (Omega 3 e 6), amminoacidi e vitamine. In sostanza, da un lato continuiamo ad usare e immettere il carbonio contenuto nei combustibili fossili, mentre dall’altro perseveriamo nel desertificare sempre di più i suoli e nel sottrarre vaste aree di antiche foreste, soprattutto pluviali, per produrre cibo, per lo più per l’alimentazione animale. Vale a dire che stiamo distruggendo il modo, potremmo dire la “tecnologia biologica”, con la quale la Natura cattura e trasforma l’anidride carbonica in ossigeno, creando allo stesso tempo ulteriori problemi climatici a livello globale. L’ipotesi di lavoro sta quindi nell’invertire questa assurda catena alimentare.
Tutti i tipi di alghe hanno bisogno di molta luce solare per crescere, che è abbondante in molti luoghi in Africa, Asia e Sud America: luoghi dove la fame e la malnutrizione sono ancora endemici nelle popolazioni locali. Possono essere contivate anche in ambienti protetti, tipo le serre, nelle nelle altre zone. Con investimenti di piccola entità oggi è possibile purificare e concentrare ogni tipo di gas presente nell’atmosfera, inclusa ovviamente anche la CO2: ad esempio nell’esempio per la produzione di biometano dalle deiezioni provenienti dagli allevamenti degli animali. Unito a luce, acqua e altri nutrienti facilmente reperibili, l’anidride carbonica potrebbe così diventare cibo per far crescere alcuni tipi di alghe da destinare sia all’alimentazione umana che a quella animale, oltre che per ottenere prodotti di largo uso nelle industrie farmaceutiche. In particolare le alghe spirulina e clorella stanno diventando le più popolari e maggiormente coltivate in tutto il mondo a questi fini, mentre le varie specie dell’alga Scenedesmus si è già dimostrata adatta per produrre biocarburanti. Importantissimo si sta rivelando anche l’utilizzo di altri tipi di alghe per la depurazione, la microfiltrazione e la potabilizzazione di acque insalubri, in particolare quelle dove sono presenti alte percentuali di nitrati, ammoniaca e fosfati. Quest’ultimo ciclo tra l’altro potrebbe permettere di usare sempre la stessa acqua depurata, con solo dei piccoli apporti per ristabilire le condizioni ottimali alla coltivazione. Con questa ipotesi quindi si ottengono sei tipi di vantaggi: 1) si producono alimenti nutrienti ricchi di oli essenziali e vitamine, molto preziosi in situazioni di fame e denutrizione; 2) si catturano grandi quantità di anidride carbonica dall’atmosfera per abbassare la febbre del pianeta; 3) si continua a produrre ossigeno e a rendere migliore la qualità dell’aria che respiriamo; 4) si ottiene acqua potabile o comunque utilizzabile per usi domestici e igienico-sanitari; 5) si ottiene una forte riduzione dei consumi di acqua dolce e sempre più scarsa; 6) si creano migliaia di posti di lavoro nelle stesse aree del pianeta da dove oggi le persone sono costrette ad emigrare. Tutto troppo bello per essere vero?
Dipende non tanto dalle scelte politiche globali (che comunque non ci saranno), quanto piuttosto dalle scelte dei singoli governi: indicativa a tal proposito è stata la recente scelta del governo del Regno Unito che nel proprio “Piano Verde” per la transizione ecologica dell’economia ha stanziato un miliardo di sterline (sui 12 totali) per la costruzione di impianti simili a quello realizzato in Islanda. Cioè per andare in una direzione che non risolverà mai nessuna delle emergenze che sono all’ordine del giorno ormai da troppi anni. Si spera che molti altri governi decidano di andare nella direzione opposta.
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