Il mondo scientifico lo sta dicendo ormai da decenni, i nostri giovani ci stanno protestando sopra ogni settimana per chiedere misure urgenti ed efficaci, mentre gli effetti disastrosi che i cambiamenti climatici stanno determinando a livello planetario ogni giorno sono implacabilmente davanti agli occhi di tutti. Ma ad ormai trenta anni dalla prima Conferenza mondiale di Rio de Janeiro, la politica continua a scegliere di non fare nulla o al massimo a prendere dei provvedimenti inadeguati e insufficienti rispetto alla gravità della situazione. Anche l’ultima della serie, la Conferenza delle Parti (COP27) di Sharm El-Sheikh, è terminata con un sostanziale nulla di fatto, con i leader politici di turno che continuano a parlare di grandi risultati raggiunti: lo scorso anno a Glasgow fu l’ex primo ministro inglese Boris Johnson, oggi è il controverso Ministro degli Esteri dell’Egitto Sameh Shoukry (Presidente della Conferenza), domani chissà chi sarà: la COP numero 28 infatti si terrà l’anno prossimo a Dubai (Emirati Arabi Uniti) che rappresenta l’esempio contrario di una città virtuosa e all’avanguardia nel contrasto ai cambiamenti climatici. L’annuncio della nascita del fondo “loss and damage” (perdite e danni) che dovrebbe risarcire i paesi più poveri e quelli in via di sviluppo dai disastri causati dal riscaldamento globale del pianeta Terra, non rappresenta nulla in confronto alla drastica cura economica che serve per affrontare seriamente la situazione. Si tratta di una monetarizzazione di fatto dell’emergenza climatica, dove i paesi ad alto consumo di combustibili fossili potranno continuare a farlo indisturbati, salvo poi mettere a disposizione un pò di briciole di pane sul tavolo di chi non ha alcuna responsabilità sul disastro planetario in corso.
Invece di risolvere ora e subito il problema in casa propria, lo si sposta da un’altra parte, lontano dagli occhi dei cittadini e degli elettori, a tutto vantaggio delle stesse ben note lobby energetiche che hanno combinato questo casino epocale. I leader politici che sono intervenuti anche in questa Conferenza vivono in una totale dissonanza cognitiva rispetto alla realtà. Hanno fatto dei discorsi nei quali si sono impegnati ufficialmenente (di nuovo) ed hanno esortano tutti i colleghi a fermare l’aumento dei livelli di carbonio nell’atmosfera, mentre nel frattempo promuovono altre leggi che permettono nuove estrazioni di combustibili fossili dal sottosuolo: vedi il governo italiano, presieduto per la prima volta da una donna, con il cosiddetto “decreto sblocca trivelle”. Non tutti i cittadini però hanno deciso di continuare ad accettare passivamente questo stato di cose, questa incapacità atavica della politica di risolvere i problemi complessi.
Proprio a seguito della Conferenza mondiale di Rio de Janeiro del 1992 in Inghilterra sono nati i “Centri per l’Emergenza Climatica” (CEC), luoghi fisici e sociali di incontro e di costruzione di relazioni, all’interno di uno spazio comune, che promuove la condivisione di risorse, competenze e idee al fine di costruire la resilienza della comunità e l’adattamento alle molteplici crisi sociali e ambientali attuali. Ad oggi se ne contano oltre 300, ma il numero sta crescendo sempre di più. Sono centri autofinanziati che, proprio in questo momento critico dei rapporti dell’umanità con il pianeta, riuniscono diversi gruppi e individui della comunità per individuare e costruire soluzioni locali, relazioni e resilienza di fronte all’emergenza climatica globale. Sono spazi e infrastrutture che permettono alle persone di connettersi e raccogliere risorse per agire insieme per un futuro sostenibile. Sono iniziative che partono tutte da una dichiarazione di “Stato di emergenza climatica” da parte del Consiglio Comunale di residenza: la stessa procedura che di solito si segue con le calamità naturali che determinano gravi danni e lutti per le comunità colpite. All’inizio sono sempre e solo un gruppo di 5-7 persone che individuano un edificio abbandonato o poco utilizzato (una proprietà privata, una scuola, un negozio chiuso, una fabbrica o una fattoria abbandonata), per il quale viene proproposto al proprietario una possibilità di riutilizzo tramite un apposito contratto. Attraverso interventi di riparazione, tinteggiatura, sostituzioni e manutenzioni varie l’edificio viene riportato in condizioni minime per la nuova fruizione.
Di solito si parte da un spazio piccolo per poi passare all’utilizzo degli altri locali ed aree disponibili creando così attività di artigianato riparativo (biciclette, carrozzelle per disabili, utensili per il giardinaggio, etc.), piccoli consorzi alimentari, librerie/caffè, spazi per organizzare eventi di autofinanziamento, vivai per la produzione di piante da frutta che servono anche alla cattura della CO2 e tutto ciò che può apparire proponibil e realizzabile dai partecipanti al CEC: il tutto all’insegna del mutuo sostegno e della cooperazione. Ogni centro è autonomo e si dota di un nome che più si addice a ciò che meglio funziona per la comunità di riferimento, ma resta comunque connessso ad un network di riferimento per condividere idee, esperienze e pratiche virtuose. A disposizione c’è anche una assistenza legale e una copertura assicurativa che coprono il CEC da ogni forma di rischio giuridico. Il manuale operativo per avviare e gestire un Centro per l’Emergenza Climatica è scaricabile dal sito https://climateemergencycentre.co.uk, attraverso il quale si può anche entrare in contatto diretto con i gruppi già attivi.
Per il momento la rete dei CEC è attiva solo in Inghilterra, ma non è difficile immaginare che quest’idea di utilizzare edifici vuoti, soprattutto di proprietà pubblica, come centri di ispirazione e creatività a beneficio e per il benessere delle persone e del pianeta, prenderà sempre più piede, stimolando le persone a riunirsi e cooperare per costruire un futuro più equo e sostenibile. Soprattutto nei paesi governati da soggetti deputati al servizio delle lobby energetiche, con un lavoro dei politici che corrisponde a ciò che di solito svolgono i migliori maggiordomi alla corte di un re, cresce sempre di più la voglia delle persone di impegnarsi in attività quotidiane a favore dell’interà comunità. Un desiderio di partecipazione che va nella direzone contraria e opposta a quella del fondo “loss and damage” ipocritamente istituito a Sharm El-Sheikh, ma per il quale si dovrà aspettare un ulteriore anno per verificare quali saranno i paesi “donatori” delle briciole di pane e quali quelli che ne dovrebbero beneficiare. Intanto, in base al comunicato stampa che ha annunciato l’accordo, tutti i paesi firmatari si “impegnereranno a raggiungere il picco delle emissioni globali entro il 2025 e a ridurre gradualmente tutti i combustibili fossili, non solo il carbone, come previsto dal patto di Glasgow dello scorso anno.” Nel frattempo i paesi poveri e in via di sviluppo hanno assunto l’impegno e la responsabilità di “redigere un rapporto annuale sui progressi compiuti nell’attuazione della riduzione graduale dell’energia da carbone.” Come a dire che dovranno essere i “beneficiari” a dimostrare di essere meritevoli di ottenere le briciole elargite dai generosissimi paesi ricchi…
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