Tutti i veri affari che si realizzano con una guerra sono inconfessabili e restano tali almeno nel periodo del conflitto e negli anni del dopoguerra. Qualcosa si comincia a capire solo con i cosiddetti “Trattati di Pace”: le condizioni economico-finanziarie che i vincitori impongono ai vinti per le riparazioni dei danni di guerra. Il perché è relativamente facile da capire, ma complicato da documentare: se questi affari fossero trasparenti si spiegherebbe in tal modo come si è formato il gigantesco potere industriale, economico e finanziario che attualmente governa il mondo intero, imperniato sul sistematico ricorso alla schiavitù. Una “prassi” che dura all’incirca da 3mila anni, dall’epoca dell’Impero di Egitto, e che si manifesta sempre attraverso la creazione di un nemico politico: una figura che nella realtà dei fatti costituisce solo il burattino che recita la sua parte in base al copione dettato dai burattinai, cioè dagli stessi affaristi che erano già d’accordo nel scatenare la guerra. Fantasie complottiste?
Dicevamo che questa “prassi” affaristica non è facile da documentare, ma per nostra fortuna (chiamiamola cosi) ormai abbiamo a disposizione una quantità rilevante di informazioni per poterla dimostrare. Partiamo dagli affari che si sono realizzati grazie alle schiavitù imposte alle parti in conflitto con la seconda guerra mondiale e che vedevano coinvolte non solo le multinazionali tedesche ma anche quelle americane.
La filiale tedesca della Kodak, il maggior produttore mondiale di macchinette e pellicole fotografiche del dopoguerra, ha utilizzato gli schiavi dei campi di concentramento. Uno dei maggiori consulenti di Hitler, Wilhelm Keppler, era il massimo consigliere economico di questa società. Quando il nazismo è andato al potere, evidentemente perché bene informato, Keppler ha consigliato alla Kodak e a molte altre aziende statunitensi che sarebbe stato un bel vantaggio economico quello di licenziare i loro dipendenti ebrei, visto che presto avrebbero svolto lo stesso compito gratuitamente.
Fin dal 1930, cioè fin da tre anni prima che andasse al potere il dittatore tedesco, un piccolo imprenditore tessile (un certo Hugo Boss, poi divenuto l’attuale leader mondiale nella produzione di jeans), aveva iniziato a confezionare uniformi per i nazisti. Il motivo? Lo stesso Hugo Boss aveva aderito fin dall’inizio al partito della croce uncinata ed aveva ottenuto un contratto per fornire il vestiario alla Gioventù hitleriana e le uniformi alle SS (entrambe organizzazioni paramilitari non inquadrate nell’esercito tedesco ufficiale). Un vantaggio enorme per un’azienda che era stata fondata appena otto anni prima. Ovviamente, visto che gli affari con i nazisti andarono così bene fin dall’inizio, con l’occasione di avere a disposizione mano d’opera a costo nullo, l’azienda fu “costretta” ad impiantare fabbriche anche in Polonia e in Francia, nazioni nel frattempo occupate. Nel 1997 il figlio di Hugo, Siegfried Boss, si è giustificato durante un’intervista concessa ad una rivista austriaca: “Naturalmente mio padre apparteneva al partito nazista. Ma chi non vi apparteneva a quel tempo?” Il particolare di avere fatto enormi affari con gli “schiavi di Hitler” e con il suo regime dittatoriale evidentemente era ed è di trascurabile importanza.
Ferdinand Porsche, l’uomo della Volkswagen che poi fondò l’omonima casa automobilistica, si era incontrato con Hitler già pochi mesi dopo la sua ascesa al potere per discutere della creazione di una “vettura del popolo” (in tedesco Volks-wagen per l’appunto). Hitler disse a Porsche di creare una vettura snella e con una forma simile a quella di “uno scarafaggio”; avrebbe dovuto essere resistente, stabile e compatta anche se poco confortevole. E’ questa la genesi del Maggiolino e fu Hitler in persona a chiamarlo così. Durante la seconda guerra mondiale si è stimato che ben quattro lavoratori su cinque negli impianti della Volkswagen fossero schiavi. Ferdinand Porsche, poi fondatore dell’omonima casa automobilistica, aveva anche un collegamento diretto con Heinrich Himmler, uno dei capi delle SS, per ottenere prigionieri di guerra schiavizzati direttamente dai campi di concentramento di Auschwitz.
La multinazionale elettronica Siemens ha utilizzato a sua volta schiavi durante l’Olocausto per costruire le camere a gas che poi avrebbero ucciso loro stessi e le loro famiglie. Un affare perfetto sotto tutti gli aspetti perché non fu necessario neanche spendere soldi per alimentare e curare gli schiavi stessi: per così dire si trattava di un “servizio completo”. Siemens può vantare anche la più grande insensibilità post-bellica tra tutte le aziende qui considerate. Nel 2001 ha creato un marchio con la parola “Zyklon” (Ciclone) che nelle intenzioni doveva diventare il nome di una nuova linea di prodotti. Può sembrare assurdo ma tra questi prodotti c’era anche una linea di forni a gas per uso domestico. Visto che Zyklon era anche il nome del prodotto chimico tossico utilizzato nelle camere a gas durante lo sterminio degli ebrei, la bella pensata non passò inosservata. Una settimana più tardi, dopo che diversi gruppi di utenti avevano pesantemente attaccato l’iniziativa commerciale, la Siemens ritrirò la proposta. I responsabili hanno detto che mai e poi mai era stata loro intenzione effettuare una connessione tra il gas Zyklon B usato durante l’Olocausto e la loro produzione di forni.
Se da una parte le truppe americane potevano sorseggiare la loro bevanda preferita a base di bollicine durante i momenti di pausa (ovviamente quando non erano al fronte), dall’altra parte succedeva grosso modo la stessa cosa, anche se le bollicine derivavano dalla fermentazioni di scarti alimentari (quella a base di arancia arriverà solo nel 1960). Anche in questo caso a guadagnarci comunque era sempre la stessa azienda. Nel 1941 la filiale tedesca della Coca Cola rimase a corto di sciroppo e non potendo ottenerlo più dall’America a causa dell’embargo delle materie prime, inventò una nuova bevanda per i soldati nazisti: era aromatizzata alla frutta e soda e fu chiamata Fanta (abbreviazione di “Fantasie”). La Coca Cola tedesca quindi assunse tale nome, per poi rientrare tra le braccia della casa madre americana, che dopo la guerra riassunse il controllo dell’impianto, della formula e dei marchi del nuovo prodotto, così come i profitti dell’impianto realizzati durante la guerra stessa. Per tantissimo tempo l’aranciata più venduta al mondo (nelle fasi finali della guerra fu usata anche come zuppa) è stata associata a donne esotiche che cantavano un celebre motivetto, ma in realtà è stata la bevanda ufficiale della Germania nazista ottenuta a sua volta con il lavoro schiavizzato.
Anche il colosso editoriale Random House, di cui faceva parte la tedesca Bertelsmann AG, ha lavorato per i nazisti. In particolare ha pubblicato la propaganda di Hitler e un libro intitolato “Sterilizzazione ed eutanasia: un contributo all’applicazione dell’etica cristiana”. Bertelsmann ancora oggi possiede e gestisce diverse aziende. La Random House nel 1997 è stata al centro di feroci polemiche quando ha deciso di “ampliare” la definizione della parola “nazista” nel proprio dizionario Web, aggiungendo la seguente definizione colloquiale e a dir poco addolcita: “Nazista – una persona che è fanaticamente dedicata o cerca di controllare una determinata attività pratica…” Ovviamente sono insorte numerose associazioni che ritennero, giustamente, molto offensiva tale definizione, in quanto eludeva i crimini perpetrati, addirittura banalizzando e negando l’intento omicida delle azioni compiute da quel regime.
Infine trattiamo gli ultimi tre casi che incrociano direttamente l’oggetto di questo approfondimento, perché danno perfettamente il senso dell’abominio affaristico che si realizza con una guerra.
L’americana IBM, attuale leader mondiale nella produzione di computer e calcolatori, aveva l’abitudine di costruire macchine per i nazisti, in particolare quelle che servivano a conservare traccia e memoria di ogni cosa: dalle forniture di petrolio, ai conti bancari degli ebrei vittime dell’Olocausto, passando per la programmazione degli orari dei treni che andavano e venivano dai campi di sterminio. Il 13 settembre del 1939, quando la Germania aveva invaso la Polonia da un paio di settimane, il “New York Times” riportò un articolo annunciante il fatto che tre milioni di ebrei sarebbero stati “immediatamente rimossi” dalla Polonia e probabilmente sarebbero stati “sterminati.” La reazione di IBM? Pubblicò un memorandum interno all’azienda dicendo che, a causa di quella “situazione”, avrebbero avuto bisogno di aumentare la produzione di dispositivi ad “alta velocità di alfabetizzazione.” Un libro dello scrittore Edwin Black (“IBM and the Holocaust”) descrive in modo dettagliato e documentato il ruolo svolto dall’attuale colosso informatico, attraverso la sua sussidiaria tedesca Dehomag, nel censimento della popolazione tedesca del 1933, che portò alla schedatura di milioni di ebrei. In quella fase storica i computer elettronici non esistevano e le informazioni del censimento venivano registrate su schede perforate, informazioni che poi venivano elaborate con selezionatrici elettromeccaniche. All’epoca la Germania era il maggiore cliente IBM dopo gli USA. Thomas J. Watson, il fondatore dell’IBM, si recò più volte in Germania per seguire personalmente il lavoro della Dehomag durante il censimento organizzato per conto dei nazisti. Un “duro lavoro” che non fu lasciato a metà: per ogni gruppo etnico (ebrei, zingari ecc.) sulle schede perforate IBM c’era un apposito codice numerico. Le informazioni registrate, elaborate per mezzo delle selezionatrici elettromeccaniche, permisero di individuare e deportare milioni di ebrei verso i campi di concentramento in tempi rapidissimi, impensabili per l’epoca senza quella tecnologia. In particolare, il governo del Terzo Reich riuscì a individuare con estrema efficienza le persone con cognome tedesco ma discendenti da famiglie ebraiche. Anche lo spostamento dei treni e delle tradotte che trasportavano i prigionieri nei vari campi di concentramento erano regolate “alla perfezione” dalle schede perforate della IBM. Il colosso informatico americano mantenne il controllo della Dehomag fino al 1941, quando gli USA dichiararono guerra alla Germania. Dopo la seconda guerra mondiale, la stessa Dehomag rientrò tra le sussidiarie dell’IBM. Nel 2001, dopo la pubblicazione del libro di Edwin Black, la multinazionale americana versò tre milioni di dollari a un fondo speciale tedesco creato per risarcire le vittime dell’Olocausto.
Sappiamo bene inoltre che non si può immaginare di affrontare una guerra senza avere la garanzia di un costante approvvigionamento energetico, in particolare il carburante per produrre energia elettrica (fonte indispensabile per l’industria bellica); per far funzionare i carri armati e far decollare gli aerei e provocare la propulsione delle portaerei e dei sommergibili, serve un combustibile che non necessariamente deve bruciare. Per esempio quel combustibile può essere ottenuto scindendo atomi di uranio. Comunque sia basta, che il combustibile produca tanto calore (cioè che abbia un alto rendimento) e che in tal modo possa essere convertito in altre forme di energia, prima elettrica e poi meccanica. La Luftwaffe poi necessitava di un altro tipo di carburante: quello addizionato con il piombo tetraetile. La potenza dei suoi aerei derivava proprio da questa caratteristica progettuale. Così la Standard Oil della famiglia Rockefeller (poi divenuta Exxon), che sulle risorse energetiche ha fondato il suo impero finanziario, risultava essere la più grande società al mondo in grado di produrre quel particolare tipo di carburante. Ricordiamo che la benzina addizionata con il piombo tetraetile è stato uno dei peggiori inquinanti mai messi al mondo dalla tecnologica bellica. Da essa verrà poi sviluppata la cosiddetta “benzina super” tanto in voga a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, salvo poi scoprire che era la principale responsabile dello “scioglimento” delle statue e dei monumenti fatti con rocce calcaree caratterizzanti, ad esempio, gran parte delle città d’arte italiane. Infatti oltre che ai nazisti, la super benzina fu fornita dalla stessa Standard Oil anche per l’esercito italiano di Benito Mussolini (il presunto nemico politico) per tutta la durata della seconda guerra mondiale. Senza quella risorsa, mai la forza aerea tedesca (ed in misura minore quella italiana) avrebbe potuto far decollare un solo aeroplano da terra. Quando anni dopo la Standard Oil fu sciolta in base alle cosiddette leggi antimonopolio (una foglia di fico per mascherare gli interessi lobbistici a livello mondiale), proprio perché di fatto ormai controllava il mercato di quel carburante che poi avrebbe invaso tutto il mondo, fu costituito l’attuale colosso Exxon-Mobil-Chevron-British Petroleum.
Del “coro” a sostegno dell’ex caporale dell’esercito austriaco fatto diventare il capo del Terzo Reich, naturalmente facevano parte anche le maggiori banche americane che fin dall’inizio avevano agevolato anche l’ascesa politica dell’ex maestro di scuola elementare Benito Mussolini. L’attuale JP Morgan Chase è stata la più importante tra le finanziatrici di tali regimi arrivando persino a congelare i conti europei dei clienti ebrei, mentre nel frattempo fu estremamente collaborativa nella fornitura di servizi bancari in Germania. Furono quei poteri bancari a manovrare i poteri dittatoriali attraverso la IG Farben che produceva, tra l’altro, i fertilizzanti e i pesticidi dai quali poi sarebbero diventate dipendenti le economie agricole dei paesi usciti sconfitti dalla guerra.
Sempre nel 1941, poco prima della dichiarazione di guerra tra Germania e Stati Uniti d’America, seguita poi da analoga dichiarazione da parte di Italia e Giappone, un’inchiesta negli USA svelò un matrimonio tra la IG Farben e la Standard Oil dei Rockfeller. Quest’ultima, con il nome di Standard Oil Company of Ohio, nel 1880 arrivò a controllare la raffinazione (non l’estrazione) del 90% del greggio prodotto negli Stati Uniti. Due anni dopo la stessa società monopolizzò il mercato petrolifero statunitense con la creazione dello Standard Oil Trust, che una sentenza della Corte suprema dell’Ohio del 1892 ordinò invano di sciogliere. Il risultato fu che nonostante l’ordine di scomporre il “Cartello” in 33 società diverse, lo stesso Trust si riorganizzò in modo da rispettare formalmente la legge. Come si dice in italiano: “Fatta la legge, trovato l’inganno”.
L’inchiesta fornì nuove prove sui complessi accordi relativi ai prezzi e alla commercializzazione dei carburanti per autotrazione. Il procuratore capo americano nella sua requisitoria affermò: “L’accusa incrimina questi uomini di matura responsabilità per aver inflitto all’umanità la più devastante e catastrofica guerra della storia umana”.
E poi continuava. “I dirigenti aziendali incriminati, e non i pazzi nazisti, sono i principali criminali di guerra. Se i loro crimini non vengono portati alla luce e puniti, in futuro essi commetteranno crimini ancora più gravi di quelli perpetrati da Hitler”. Altre parole, purtroppo, profetiche quanto inascoltate.
L’inchiesta venne lasciata cadere, come del resto tutte le altre citate qui sopra, perché sotto il profilo politico risultava più conveniente ottenere il supporto industriale nazista nello sforzo bellico americano. Anche in quel caso non importava quale delle due fazioni avrebbe vinto la guerra. L’importante era che lo stesso finanziatore avrebbe poi dettato le condizioni per la restituzione del denaro finanziato alle parti belligeranti. Così si chiusero entrambi gli occhi anche sugli intensissimi rapporti industriali con le aziende tedesche.
Ma gli affari di questo incofessabile Trust continuarono di buona lena con le guerre successive: a partire da quella nel Vietnam. Nel 1967, mentre gli USA erano pesantemente coinvolti in questa ennesima guerra, la IG Farben, anche se il suo nome era ufficialmente scomparso, costituì una joint venture con la Monsanto. Infatti, nonostante la compagnia tedesca sia stata liquidata nel 1952, continuò a essere trattata alla Borsa di Francoforte proprio come un Trust che conteneva alcune proprietà immobiliari. Venne dichiarata in bancarotta il 10 novembre del 2003 dai suoi liquidatori, dopo aver versato 500mila marchi (appena 200mila euro attuali) a una fondazione di ex-lavoratori forzati del regime nazista. Nel 2017 l’americana Monsanto (la prima ad ottenere il brevetto dei semi OGM nel mondo) e stata acquistata dal colosso agro-chimico-farmaceutico tedesco Bayer, a sua genitore e discendente della IG Farben. Ogni anno, per 49 anni consecutivi, la sede della compagnia è stata sede di dimostrazioni da parte di centinaia di manifestanti. Erano tutti ex prigionieri costretti ai lavori forzati, ma mai nessun organo di informazione della cosiddetta stampa libera dei paesi occidentali, tranne qualche rara eccezione, diede conto di quella indomita protesta.
Qui ci fermiamo un attimo per prendere fiato e per poi riprendere la narrazione dell’infamia che qui stiamo raccontando.
Perché la guerra è sempre un ottimo affare per i regimi idioti (prima parte)
Perché la guerra è sempre un ottimo affare per i regimi idioti (seconda parte)