E’ una domanda questa che prima o poi attraversa ogni esistenza umana: quale valore diamo a noi stessi, a ciò che siamo e alle cose che comunque siamo capaci di fare? Riguarda il valore che assegniamo alla nostra vita, quel valore che comunemente viene definito “dignità” e che nessun altro, nemmeno i nostri genitori, possono permettersi il lusso di sottovalutare o di considerare inutile. Tanto inutile da essere usata spesso come carne da macello in una delle tante guerre volute dagli idioti al potere con i regimi totalitari in qualche regione di questo pianeta. Il valore della nostra dignità si misura quotidianamente con il lavoro che svolgiamo, ammesso che ne abbiamo uno (ma anche in questo caso il discorso non cambia) per guadagnarci da vivere e per essere considerati nella società in cui viviamo. Meglio svolgiamo il nostro lavoro e più avremo successo, verremo considerati meglio e pagati con stipendi più alti. Più alto è lo stipendio e più alta diventa la nostra posizione sociale, anche se raggiunta con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali e degli altri esseri umani. Ma in questo modo di considerare la dignità del lavoro c’è un problema che si sta rivelando sempre più insormontabile per le persone: la stragrande maggioranza delle opportunità di lavoro attualmente disponibili nel mondo sono strettamente collegate alle molteplici crisi che stanno caratterizzando la nostra epoca e che stanno portando il nostro pianeta al collasso. Proprio la guerra in corso in Ucraina, così strettamente legata alla produzione di energia da fonti non rinnovabili (centrali nucleari incluse) e al progressivo riarmo delle nazioni in conflitto (in particolare della Russia), è il classico esempio che dimostra questa enorme contraddizione planetaria.
In qualsiasi paese di questo mondo, una persona che porta a casa uno stipendio ogni mese per sostenere il futuro della propria famiglia, dei suoi figli in particolare, dopo aver lavorato molte ore alla costruzione di armi di distruzione di massa, utilizzato materie prime prelevate dai luoghi occupati militarmente e sfruttando ancora di più quei combustibili fossili che stanno alterando irreversibilmente il nostro clima, di fatto sta negando la possibilità di dare un futuro ai suoi figli. Lo stesso discorso vale per tutto ciò che ancora oggi viene prodotto con sistemi altamente inquinanti, che producono una quantità enorme di rifiuti non recuperati/riciclati e che compromettono gli ecosistemi naturali. A ben vedere la stragrande maggioranza dei posti di lavoro oggi disponibili su scala globale negano la possibilità di dare un futuro alle future generazioni.
Questa è la principale causa di fondo in base alla quale negli ultimi anni, molte persone hanno iniziato a mettere in discussione profondamente il loro rapporto con il lavoro. E in discussione non ci sono solo le ragioni etiche su illustrate, ma anche le situazioni lavorative, le condizioni di sicurezza e sfruttamento che caratterizzano tutti questi lavori predatori. La messa in discussione riguarda anche e soprattutto i rapporti gerarchici che all’interno di ogni organizzazione produttiva che sfrutta al massimo le risorse umane e la natura per far guadagnare sempre di più i vertici aziendali e sempre di meno il livelli più bassi. La “spada di Damocle” che costringeva ogni essere umano ad accettare qualsiasi forma di occupazione e anche in condizioni infernali pur di portare a casa uno stipendio (il presunto “mercato del lavoro”), sembra non funzionare più, almeno nei paesi più ricchi nel mondo. In molti di questi paesi la forbice tra il numero dei posti di lavoro disponibili e le persone disoccupate che cercano un’occupazione qualsiasi si sta allargando sempre di più. Un fenomeno che in America, dove ha preso piede in modo del tutto inatteso, è stato definito “Great Resignation” (“dimissioni di massa”). A conti fatti milioni di persone si erano rese conto che la pandemia da Covid 19 aveva fatto saltare in aria i loro rituali quotidiani: andare al lavoro, guidare la macchina nel traffico per portare i bambini a scuola e aspettare di trascorrere del tempo di qualità insieme a loro nel poco tempo libero rimasto. Il confine tra la vita privata e quella professionale si è irrimediabilmente confuso e tutti i valori e le norme sociali precedente date per scontate sono state travolte: nel mese di novembre 2021 è risultato che 4,53 milioni di persone negli USA avevano rassegnato le dimissioni dal proprio posto di lavoro, mentre nel Regno Unito alla stessa data e per a stessa ragione il numero era di 4,4 milioni. Negli USA il 56% delle persone dimissionarie era di età pari o inferiore a 38 anni e con bambini a carico: la generazione che per prima ha dovuto affrontare seriamente le questioni relative alla sostenibilità e che hanno sentito il bisogno di lavorare, utopitamente, per un’azienda che cambia il mondo. Questo fenomeno innescato dalle misure sul Covid 19 però oggi si sta espandendo anche per un’altra ragione di fondo che prova a dare un’alternativa reale proprio a questa economia predatoria e distruttrice delle condizioni di convivenza pacifica tra i popoli.
La pandemia infatti ha ulteriormente messo in luce i modi in cui le disuguaglianze sociali, i cambiamenti climatici e le guerre saranno le sfide determinanti di questa generazione, non di altre. Queste emergenze ci fanno capire che il tempo a disposizione per affrontarle e risolverle una volta per tutte è ormai scaduto e di conseguenza viene sempre più spontaneo chiedersi se lavorare in modo competitivo nei confronti di altri esseri umani e predatorio nei confronti delle risorse naturali, con il risultato di esasperare e alimentare ancora di più le stesse emergenze, ha ancora un senso. E allora, da un punto di vista esistenziale, le persone si chiedono se ha ancora un senso la propria vita così condizionata da un lavoro senza senso, anche se non è ancora arrivata l’immancabile lettera di licenziamento. Non è forse più semplice ed efficace fare le scelte giuste e per tempo, lavorando per realizzare il suo esatto contrario, sempre auspicato da tutti solo a parole, ma mai concretizzato nei fatti? Lavorare cioè per la prevenzione delle malattie, l’equità sociale, il rispetto degli equilibri ecologici del pianeta che ci ospita e per la pace tra tutti i popoli?
Probabilmente sono queste le domande che si è posta Caroline Dennett, consulente per 11 anni dei sistemi di sicurezza del colosso internazionale del gas e del petrolio Shell, prima di inviare una e-mail, la mattina del 23 maggio scorso, per annunciare le sue dimissioni a 1.400 dirigenti della società. L’incarico le era stato conferito dopo la disastrosa fuoriuscita di petrolio del 2010 nel Golfo del Messico dalla piattaforma Deepwater Horizon della BP e nella sua comunicazione la donna ha chiesto ai dirigenti e al management della Shell di “guardarsi allo specchio e chiedersi se credono veramente che la loro visione per una maggiore estrazione di petrolio e gas assicuri un futuro sicuro all’umanità”. Il suo post su LinkedIn ha ricevuto quasi 10.000 reazioni e più di 800 commenti, tra favorevoli e contrari alla sua scelta. Con le informazioni raccolte in anni di lavoro, la Dennett aveva predisposto una serie di raccomandazioni su come migliorare la cultura della sicurezza tra i lavoratori della società. Ma alla fine si era resa conto che non poteva continuare a lavorare per Shell a causa delle contraddizioni che ha riscontrato tra l’attenzione dell’azienda alle preoccupazioni per la sicurezza dei singoli sul posto di lavoro e il pericolo planetario di continuare a estrarre petrolio e gas per produrre energia da fonti fossili e continuare a pompare CO2 nell’atmosfera.
“C’è qualcosa che non va in tutto questo” ha commentato la Dennett in un’intervista seguita alle sue clamorose dimissioni. In sostanza, le emergenze planetarie in corso ci fanno riscoprire la dignità del lavoro. Sotto tutti i punti di vista ha molto più senso lavorare per la creazione di reti per nuove collaborazioni che supportano la crescita umana, il mutualismo, il rispetto degli ecosistemi attraverso la creazione di imprese di proprietà condivise, con una gestione collettiva e (perché no?) con una remunerazione più dignitosa e più adeguata alle proprie capacità, alle aspettative e alle proprie competenze personali.
Gli esempi di imprese caratterizzate da questa impostazione ormai sono innumerevoli. Riguardano soluzioni pratiche come, ad esempio, una settimana lavorativa più corta (erroneamente impostata in passato sulla produttività e sull’efficienza dei lavoratori) più salutare per le persone e per il pianeta, oppure di una finanza rigenerativa e di biodiversità in forma economica. Soluzioni di come le imprese solidali possono rendere il lavoro dignitoso. Non mancheremo di darvene conto con prossimi approfondimenti su questo sito.
Leggi anche su questo sito:
Un lavoro equo per tutti: da utopia a realtà
Ridurre l’orario di lavoro per dare una mano al pianeta
Dare cibo e lavoro a tutti senza produrre rifiuti
Imprese municipali che salvano economia, storia, ambiente e posti di lavoro
Dare un lavoro a tutti è possibile con la retribuzione universale di base