Alimenti biologici, bioenergie, biogas, biocarburanti, biofarmaci, biotecnologie, bioedilizia, biochimica: con l’aggettivo “bio” tutto sta diventando improvvisamente ecologico, ecocompatibile, sostenibile e, almeno nella pubblicità, “amico della Natura”. Ma si può considerare “biologico”, anche se è stata rispettata la relativa normativa di certificazione del settore, una confezione di gamberetti surgelati proveniente dal Vietnam, ad esempio, dove si stanno riconvertendo le risaie in allevamenti ittici e che ha viaggiato in aereo per migliaia di chilometri per arrivare nel nostro frigo? Basta poi piantare qualche decina di alberi in qualche nazione sperduta del pianeta per compensare le relative emissioni di gas serra prodotte da quell’aereo? Usando i sacchetti biodegradabili per i nostri rifiuti alimentari (il cosiddetto organico), siamo poi certi che il relativo compost tornerà alla coltivazione dai terreni agricoli che hanno prodotto la materia prima? E’ sufficiente infine, piazzare qualche pannello solare sul tetto della nostra casa per poi lasciare computer e televisori accesi tutto il giorno? In altre parole: queste alternative eco-nomiche sono realmente eco-logiche come vogliono farci credere o servono solo a dare una mano di vernice verde ai soliti affari basati sui nostri stili di vita insostenibili? Come sappiamo in inglese questo problema viene definito “greenwashing” (lavaggio verde o presentare come ecologico qualcosa che non lo è) e rappresenta un grave pericolo nel quale è già caduta in buona parte la cosiddetta “green economy” e che ora rischia di far precipitare nello stesso baratro anche la tanto sbandierata transizione ecologica dell’economia. Qualcosa che sta ad indicare con la sua facciata un rispetto che invece non c’è affatto e con la quale adesso, anche a causa della pandemia in corso e della necessità di non apparire tra i responsabili dei cambiamenti climatici in corso, si sta veramente esagerando e sconfinando in una gigantesca presa in giro.
Riteniamo, come già spiegato in altri articoli su questo sito, che si tratta di una questione di fondamentale importanza per capire che non può esistere un sistema produttivo che sia ecologicamente sostenibile se non lo è anche dal punto di vista degli impatti ambientali e sociali che esso produce. In molte produzioni “verdi” infatti, oltre che per la Natura, non c’è oggi alcun rispetto per i diritti umani dei produttori e la realtà è molto diversa da quella che ci viene prospettata con una etichetta con le parole bio o eco e naturale.
I biocarburanti ad esempio, che sono una vera risorsa energetica rinnovabile quando sono ottenuti da colture realizzate su terreni marginali e non in competizione con l’alimentazione umana, sempre più spesso vengono prospettati come una soluzione al progressivo esaurimento del petrolio. Per questo motivo la loro produzione viene incentivata da tutti i paesi occidentali. Attualmente però il 90% dei combustibili “bio” prodotti in Europa provengono da colture come la soia e il mais, che fanno parte della catena alimentare umana. Per non parlare dell’olio di palma che viene utilizzato come combustibile per la produzione di energia elettrica. Anche in Europa si sta importando questo prodotto che proviene in larga parte da piantagioni realizzate dove prima c’era la foresta tropicale: fenomeno che oltre alla distruzione indiscriminata della biodiversità, comporta sempre più spesso lo sfruttamento di larghe fasce di popolazione immigrata dalle nazioni limitrofe alla Malesia e l’Indonesia, dove si concentra la maggior parte della produzione mondiale di olio di palma.
Analogo discorso vale per il biogas ricavato dalla frazione organica dei nostri rifiuti per produrre metano, cioè un prodotto che poi deve (attenzione: non solo può, ma deve) essere utilizzato come combustibile. Tra tutti i gas serra infatti il metano è quello che crea più danni al nostro clima perché risulta 27 volte più dannoso dell’anidride carbonica: per questo è meglio che venga bruciato una volta concentrato. Ma allora, ci si domanda, perché lo si produce proprio attraverso la frazione organica dei nostri rifiuti, mentre è già disponibile la tecnologia delle biofabbriche che eliminano i rifiuti organici con l’uso degli insetti? Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un salto nel passato. Più volte l’Unione Europea ha minacciato di sanzionare gli stati membri perché continuavano ad incentivare con soldi pubblici la termovalorizzazione con il recupero energetico dei rifiuti: inceneritori spacciati come una fonte rinnovabile di energia “assimilata” alle fonti rinnovabili vere: il sole, il vento, la geotermia, ecc. Dopo l’ennesimo braccio di ferro con i lobbisti del settore energetico perennemente spalleggiati dalla politica, la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato che poteva essere considerata rinnovabile (e per questo incentivabile con soldi pubblici), solo la frazione organica dei rifiuti. L’incenerimento di tutti gli altri rifiuti, in particolare la plastica, doveva essere considerato per quello che è, cioè una forma camuffata di smaltimento della nostra immondizia. In un anno, da oltre dieci anni, l’Italia, termovalorizza circa 100 kg per abitante, mentre sono 400 in Danimarca e Norvegia, poco meno di 200 in Francia, Germania e Regno Unito (nell’immagine qui di fianco il contestatissimo termoinceneritore di Acerra, Campania, Italia). In Europa, comunque, la maggior parte dei Paesi inviano a termovalorizzazione più rifiuti di quelli che vengono effettivamente riciclati. Smaltimento che invece di avvenire con il sotterramento nelle discariche, si ottiene con la dispersione in aria di altri gas serra e micro particelle inquinanti, ricorrendo poi comunque alle discariche per lo smaltimento delle ceneri e dei filtri delle ciminiere. Ma far bruciare la sostanza organica “tal quale” nei termoinceneritori, come dice la Corte di Giustizia Europea, è un suicidio energetico prima ancora che economico. Per questo è sbucata fuori l’idea di produrre il “biogas”, perché in tal modo si ottengono due piccioni con la stessa fava: da un lato si lascia in mano agli stessi lobbisti di sempre lo smaltimento dei rifiuti e dall’altro si ottengono i generosi incentivi pubblici per la produzione di energia da una fonte cosiddetta “rinnovabile”. I cittadini pagano cosi più volte lo stesso servizio: lo smaltimento dei rifiuti, la produzione di energia da fonte fasulla e i costi sanitari dell’inquinamento. Geniale no?
E cosa dire poi della confezione di gamberetti proveniente dal Vietnam, piuttosto che dall’Equador o dal Bangladesh? Non ci interessa il fatto che il prodotto, preso a caso tra i tantissimi esempi possibili, è certificato da una fondazione filantropica fondata da due delle persone più ricche al mondo, quanto piuttosto verificare quanto sia “bio” nel suo complesso un prodotto del genere. L’idea della gambericoltura biologica nei paesi tropicali e sub-tropicali infatti è nata in Europa circa venti anni fa per contrastare l’aggravarsi dei problemi ambientali causati dalle produzioni intensive convenzionali e dalla pesca “a strascico” in mare aperto: problemi causati soprattutto dall’abuso degli antibiotici negli allevamenti e la distruzione delle foreste delle mangrovie lungo le coste. La motivazione principale però è dettata dall’alto consumo di questo prodotto ittico che si registra negli ultimi decenni in tutti i paesi europei, nel nord America, in Cina e in Giappone. Qualcuno ha avuto l’idea che molti consumatori sarebbero stati disponibili a spendere qualcosa di più, pur di avere la “coscienza pulita” sotto il profilo ecologico. Così la soluzione è stata trovata nei piccoli produttori nei paesi tropicali che da sempre utilizzano sistemi di produzione e di pesca “vicini al biologico”. Ad accorgersi dell’affare sono stati per primi gli svizzeri che hanno avviato un intenso programma di importazione dal Vietnam fin dall’anno 2000. Attualmente la richiesta è di gran lunga superiore all’offerta e di conseguenza si stanno moltiplicando gli organismi internazionali di certificazione, spesso inaffidabili, che attestano genricamente la “biologicità” di questi prodotti che poi vengono trasportati con costi ambientali insostenibili nei nostri supermercati. Queste storie ci dovrebbero incoraggiare a cercare molte più informazioni rispetto a quanto siano “amici della Natura” (e delle persone, aggiungiamo noi) certe produzioni, pur di non modificare i nostri stili di vita e gli affari che ci si realizzano sopra.
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