E’ il lavoro a produrre ricchezza e di conseguenza reddito. I fautori e i beneficiari dell’economia predatoria invece hanno inculcato nella testa delle persone l’idea che sia ricchezza già accumulata, soprattutto quella monetaria (pubblica o privata che sia), a produrre occupqazione. Questo è stato l’errore che ci ha portato al disastro planetario in corso e la stupida perseveranza nella medesima illusione rischia di costituire la principale causa del collasso definitivo. Mentre si fa un gran parlare della transizione ecologica dell’economia, le scelte di fondo, con un ulteriore e massiccio ricorso alle fonti energetiche non rinnovabili, continuano ad essere sempre le stesse. Negli ultimi mesi infatti, quando l’ondata pandemica del coronavirus sembrava superata con l’ausilio dei vaccini (ovviamente solo nei paesi più ricchi) e con la ripresa dell’economia mondiale, è tornata ad affacciarsi su scala globale l’inflazione dei prezzi dei beni al consumo. La causa principale è stata attribuita alla vertiginosa crescita dei combustibili fossili dai quali ancora oggi dipende oltre l’80% dell’economia mondiale. Le bollette energetiche di tutti i paesi sono così schizzate alle stelle e i governi nazionali non sanno più dove sbattere la testa per reperire risorse economiche per calmierare i prezzi.
Viene rispolverata in questo modo la vecchia visione di un’economia ottusa in base alla quale l’inflazione si combatte solo con l’aumento della disoccupazione e il contenimento dei salari. La ricetta a base di veleno sociale è quella di sempre: contenere quelli che, erroneamente vengono considerati i maggiori costi di produzione. L’occasione è stata colta al volo da tutti i fautori del “greenwashing” che hanno persino rispolverato l’idea che il nucleare, non solo è una fonte energetica pulita, ma sarà anche una fonte illimitata per il prossimo futuro. Non si può immaginare qualcosa di più stupido per allestire il collasso definitivo.
A ben vedere questa situazione era facilmente prevedibile perché il Covid 19 è solo uno dei tanti pretesti per giustificare una crisi irreversibile dell’attuale sistema di approvvigionamento energetico e per procastinarne ulteriormente la sua permanenza in vita malgrado i problemi climatici, economici, ambientali e sociali che ha fin quì creato. Lo sanno tutti i decisori politici che le fonti fossili (petrolio, carbone e gas) prima o poi si esauriranno e anche l’uranio dal quale si ricava il combustibile per produrre energia nucleare e il materiale fissile per le bombe atomiche, è un elemento sempre meno disponiblile sull’intero pianeta. Così come sanno i decisori, o almeno dovrebbero sapere, che la persistenza nell’uso di queste fonti aggraverà ulteriormente il vero “problema dei problemi”: la mancanza di un lavoro e di una retribuzione sicura per fasce sempre più large della popolazione globale, in particolare per i giovani. E allora bisogna stabilire una volta per tutte un principio: se da un lato l’energia ottenibile dalle fonti fossili e dall’uranio, Covid o non Covid, costerà sempre di più, è altrettanto vero che l’energia ottenibile dal sole e dalle fonti rinnovabili nel loro complesso (sulle quali si basa la trransizione ecologica dell’economia) costeranno sempre di meno. E’ indubbio che la disponibilità di energia è fondamentale per qualsiasi ragionamento di carattere economico, ma anche che le sue fonti e soprattutto il suo uso può determinare conseguenze diametralmente opposte nel creare lavoro e di conseguenza ricchezza. Solo l’uso consapevole e intelligente dell’energia ci può portare alla piena occupazione: non ci sono altre strade. E allora: perché si continua a perseverare in questo madornale errore?
Per convenienza economica, certo, ma anche perché si continua a pensare che l’energia “sporca” utilizzata per sostiture un posto di lavoro, magari con un robot o un computer, è sempre l’investimento migliore da fare, mentre la realtà ci dimostra il contrario. L’aggravarsi della disoccupazione, anche in presenza della cosiddetta “ripresa post pandemia”, dipende proprio dai mancati interventi di contrasto e mitigazione dei cambiamenti climatici, che ha loro volta intensificheranno la diseguaglianze sociali. I dati in tal senso sono molto eloquenti.
Alcuni rapporti elaborati negli ultimi anni dall’International Labour Organization (ILO – Organizzazione Internazionale del Lavoro) formata dalle maggiori rappresntanze sindacati dei lavoratori a livello mondiale, documentano che l’innalzamento della temperatura del pianeta ha già influito pesantemente sulla produttività del lavoro, misurata in termini di ore di lavoro. Dal 1995 si stima che l’1,4% delle ore lavorate complessivamente sono state perse a causa dello stress da caldo: sembra una percentuale di poco conto ma questa cifra sta ad indicare che circa 35 milioni di persone in tutto il mondo hanno perso il loro lavoro. L’ultimo rapporto stima che la percentuale del totale delle ore perse salirà al 2,2 per cento nel 2030, con una perdita di produttività pari a 80 milioni di lavoratori impiegati a tempo pieno: si trtta di una popolazione equivalente a quella dell’intera Germania. Delle 20 sottoregioni mondiali prese in considerazione, quattro risultano particolarmente vulnerabili e si prevede che subiranno perdite vicine o superiori al 3% nel 2030: Asia meridionale, Africa occidentale, Sud-est asiatico e Africa centrale. Al contrario, il Nord America e tutte le sottoregioni d’Europa non dovrebbero subire significative perdite derivanti da questa causa. Questo significa che proprio da e verso queste sottoregioni si intensificheranno ulteriormente i flussi migratori. Anche perché, sottolinea il rapporto ILO, le aree con elevata vulnerabilità allo stress termico tendono anche ad essere caratterizzate da una mancanza di lavoro dignitoso, oltre ad avere meno probabilità di accesso all’assistenza sanitaria, ad altre forme di protezione sociale quali la prevenzione degli incidenti e gli infortuni sul posto di lavoro e all’uso del lavoro minorile.
Esattamente come succedeva 100 anni fa nei paesi industrializzati. Ad esserne coinvolti saranno soprattutto le attività svolte all’aperto: l’agricoltura (nel mondo circa 1 miliardo di persone svolgono questa attività per far sopravvivere la propria famiglia), l’edilizia, la raccolta dei rifiuti, i trasporti, ecc. E se si tiene conto che la persistenza di temperature ambientali superiori a 39°C (spesso raggiunte ormai anche nei paesi “nordici”) possono portare alla morte le persone, si comprende bene la gravità della situazione.
Anche su questo fonte quindi, non c’è tempo da perdere perché i livelli di calore eccessivi aggraveranno ulteriormente la disuguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri e tra gruppi di popolazione all’interno della stessa nazione (soprattutto verso i grandi centri urbani), in cerca di una soluzione ormai impossibile nei loro luoghi di origine. Un motivo in più per inserire queste criticità negli accordi normativi internazionali che dovrebbero regolare prima o poi (la speranza è sempre l’ultima a morire) i flussi migratori regolamentati e sicuri tra le varie regioni della Terra. Un motivo in più anche per smetterla da subito di utilizzare le fonti energetiche non rinnovabili e per realizzare una effettiva transizione ecologica dell’economia (non un generico “greenwashing” di facciata). Un motivo in più, soprattutto, per riaffermare che non è la ricchezza monetaria a produrre il lavoro, ma il suo esatto contrario.
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