L’agricoltura industriale ha distrutto il territorio e il nostro paesaggio per fare spazio alle sue mastodontiche modalità di produzione. Con impianti di irrigazione che considerano gli alberi, soprattutto quelli di grandi dimensioni, degli inutili ostacoli alla gettata degli irrigatori, con il “terrapiattismo” dei terreni spianati e senza pendenze per poter distribuire i pesticidi anche con gli aerei, con estensioni enormi degli stessi terreni per poter intervenire solo con i mezzi meccanici durante la raccolta, con monocolture attuate con semi geneticamente modificati e/o con genoma brevettato (New Breeding Techniques – NBT). Proprio questa filosofia, anche con il nuovo concetto della “agricoltura di precisione” ci sta portando ad un sistema di produzione senza agricoltori, dove poi saranno i computer, i satelliti, i robot e altri tipi di automi meccanizzati a realizzare le coltivazioni nei campi sempre più poveri di biodiversità. L’agricoltura industriale non concepisce la complessità ecosistemica e non tollera tutto ciò che non è facilmente riducibile alla sua stupida semplificazione. L’agricoltura industriale fa parte dello stesso modello di insostenibilità che ci ha portato al punto di non ritorno nel rapporto tra la parte più ricca del genere umano e il pianeta che ci ospita. Le schiere di politici, manager e scienziati al libro paga che abbiamo visto all’opera al recente vertice mondiale di Glasgow, hanno dimostrato ancora una volta di non saper dare alcuna risposta alle emergenze planetarie in corso, ma intanto c’è già chi si è dato da fare per risolverle tutte contemporaneamente con un’unica azione comune. La soluzione sta nell’abbinare tecniche di produzioni forestali rigenerative per la coltivazione sostenibile delle derrate alimentari negli stessi appezzamenti di terreno: l’esatto contrario di quanto prevede l’esasperazione delle tecniche dell’agricoltura intensiva fatta senza agricoltori. Ed è una soluzione che si è sviluppata e organizzata direttamente dal basso, dagli agricoltori più poveri, senza l’intrusione dei governi nazionali e di imponenti finanziamenti internazionali.
Agricoltori coinvolti nelle stesse diseguaglianze sociali che costringono interi popoli all’emigrazione, a subire passivamente il degrado del suolo, a riscontrare la progressiva erosione della fertilità, a subire la perdita di biodiversità, l’insicurezza alimentare, la scarsità di legna da ardere, la carenza di legname da costruzione e la scarsità di foraggio per alimentare il bestiame. Per non parlare dei cicli idrologici disfunzionali provocati dai cambiamenti climatici che generano sempre di più inondazioni e siccità, la riduzione delle acque sotterranee e la ricarica delle falde, il prosciugamento di sorgenti, pozzi e torrenti. Per la serie “I poveri battono i ricchi due a zero”, l’esperienza che qui raccontiamo è stata ottenuta con costi estremamente bassi, ma con risultati economici, sociali e ambientali di altissimo livello.
Dagli agricoltori che vivono in aree fortemente degradate, in particolare delle donne, nel 1983 è stato avviato nell’area sub-sahariana dello stato del Niger, il progetto denominato Farmer Managed Natural Regeneration (Rigenerazione naturale gestita dagli agricoltori – FMNR). La situazione in quella regione stava aggravandosi e peggiorava sempre di più a causa della rapida deforestazione avvenuta negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: i terreni agricoli degradati non erano più in grado di fornire cibo sufficiente per sfamare la popolazione del paese. Per contrastare questa drammatica situazione, il governo del Niger aveva lanciato un’iniziativa per piantare 60 milioni di alberi nel giro di pochi anni, ma l’iniziativa è ben presto fallita a causa degli alti tassi di mortalità (oltre l’80%) degli alberi trapiantati. Anche le piante attecchite comunque non riuscirono a dare i risultati sperati a causa degli alti costi per l’irrigazione e il conseguente scarso sviluppo vegetazionale. Visto l’insuccesso dell’iniziativa governativa l’approccio del FMNR si è basato su un’antica pratica degli agricoltori locali nel far crescere le painte anche nella terra più degradata utilizzando gli estesi sistemi di radici di alcune piante autoctone (Piliostigma reticulatum e Guiera senegalensis). I ceppi cespugliosi di questi alberi e i loro apparati radicali crescono più rapidamente degli alberi ottenuti da semi (che comunque vengono dispersi e seminati attraverso il letame animale). Asportandone i fusti più deboli si consente alle piante di avere fusti di dimensione normale. Grazie alla copertura garantita dalle chiome e alla sostanza organica fornita dalle foglie i terreni interessati hanno recuperato progressivamente la loro fertilità naturale, anche grazie all’aumento dell’umidità del suolo e alla combinazione con misure fisiche di conservazione sia del suolo che della poca acqua piovana. Già nelle fasi iniziali le rese di cereali raccolti sono aumentate in media di 100 kg ad ettaro. Nella fase a regime del programma il contributo complessivo è stato di circa 500mila tonnellate che hanno fornito il cibo necessario al sostentamento e al reddito minimo per 2,5 milioni di persone. Attraverso una attenta gestione delle piante, cioè asportando i fusti più grandi mentre ricrescono quelli più giovani della stessa ceppaia, gli stessi alberi forniscono anche foraggio per il bestiame, materie prime per produrre medicinali e legname per materiali da costruzione, consentendo così agli agricoltori di creare un flusso di reddito aggiuntivo.
I maggiori rendimenti ottenuti attraverso i terreni meno degradati e di migliore qualità, negli anni buoni consentono all’eccedenza di bilanciare i deficit negli anni con rendimenti più poveri. I forti venti provenienti dal deserto del Sahel (nei decenni scorsi la desertificazione si espandeva al ritmo di circa 30 chilometri l’anno) trovano un forte elemento di contrasto dalla chioma di questi alberi. L’effetto mitigazione dei cambiamenti climatici è stato ottenuto con oltre 5 milioni di ettari di terreno rigenerati che sono stati ricoperti con circa 4,5 tonnellate di biomassa fuori terra per ettaro (una quantità impressionante anche per terreni estranei ai fenomeni di desertificazione e dove la sostanza organica si trova in abbondanza), con il trapianto di oltre 200 milioni di alberi. Anche l’impatto sociale, oltre a quello economico e ambientale, è stato straordinario: in particolare nel rafforzamento del capitale sociale e nella condivisione/comunicazione delle conoscenze tra gli agricoltori. I fardelli delle donne che portavano sulle spalle anche i loro bambini e che in passato erano costrette a camminare ore e ore per trovare legna per cucinare il poco cibo disponibile, sono diventati molto più leggeri poiché la legna da ardere è più facile da raccogliere ed è molto più vicina.
Le donne inoltre hanno più tempo per dedicarsi ad attività economiche e di altro tipo. Il loro status nella comunità viene spesso elevato dal momento che partecipano alle attività di gruppo dove si prendono le decisioni per l’intera collettività: a volte, alla leadership, anche perché i loro bambini hanno maggiori probabilità/possibilità di andare a scuola. E con la diversificazione del reddito, ci sono anche maggiori disponibilità per ulteriori investimenti in agricoltura e attività economiche che riducono la povertà e creano ricchezza sostenibile. Le famiglie di agricoltori che praticano il modello FMNR hanno maggiori probabilità di raccogliere un raccolto annuale in un anno di siccità rispetto ai vicini non praticanti. Per questo il modello si sta espandendo sempre più velocemente in tutti i paesi africani (se ne contano ormai più di venti) e anche in altre aree del globo soggetti agli stessi problemi ma con effetti opposti. Come ad esempio a Timor Est (sudest asiatico) dove le inondazioni, gli smottamenti, il dissesto idrogeologico e la scarsa fertilità del suolo sono i principali problemi.
Contrariamente a quanto ha imposto al mondo intero il modello dell’agricoltura industriale, questo esempio dimostra il ruolo fondamentale degli alberi nel migliorare la resilienza dei mezzi di sussistenza: non solo nelle economie nelle terre aride dell’Africa orientale. Gli interventi calati dall’alto e privi di ogni esperienza sul campo (in tutti i sensi) non produrranno mai i risultati che possono essere raggiunti da chi conosce la propria terra e quello che essa ci può offrire, anche in condizioni estreme. Per questo è necessario costruire una resilienza universale dei mezzi e delle capacità di sussistenza a partire proprio dalle comunità che vivono nelle terre aride. La rigenerazione di queste terre crea una prospettiva di rigenerazione dei servizi ecosistemici che riparte dalla resilienza offerta dagli alberi. Un pò come è successo con le prime forme di vita sul pianeta Terra il modello FMNR è un mezzo estremamente efficace per ridurre la povertà delle persone che i “pachidermi” dell’agricoltura industriale lasciano sempre indietro e per ultimi. Un esempio su cui c’è molto materiale per riflettere, per decidere le scelte giuste da fare e, sopratto, per agire.
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