Tra i tanti disastri che sta lasciando dietro di se la globalizzazione selvaggia c’è quello dell’abbandono delle coltivazioni antiche locali, in particolare dei frutteti. Precisiamo fin d’ora che esiste anche una globalizzazione positiva, ma ne riparleremo in un prossimo approfondimento su questo sito. Per restare nella considerazione della produzione delle mele (e dei loro vermi), oggi in tutto il mondo solo dieci varietà vengono coltivate su larga scala per motivi di produttività e di commercializzazione. Queste varietà hanno soppiantato tutte le altre e alterato completamente la biodiversità genetica dei singoli habitat. A livello mondiale infatti fino a qualche decennio fa erano circa 7.500 le varietà di mele coltivate. In Italia, il paese dove viviamo e che da sempre è considerato la culla della dieta mediterranea, solo sei tipi di mele occupano l’85% del mercato nazionale e di queste neppure una è di origine nazionale: ma il problema non riguarda solo la frutticoltura. Rispetto alle verdure e agli ortaggi, oggi in commercio esistono oltre 320 varietà di semi di pomodoro, uno dei più tipici prodotti della cultura alimentare di questo paese, ma sono 20 di queste (appena il 6%) è di origine italiana, mentre nel mondo le varietà di pomodoro conosciute e riprodotte (escluse quindi quelle estinte) sono quasi 5mila. Lo stesso discorso vale per le 25 varietà di cetrioli in circolazione (nessuna appartiene alla tradizione agricola italiana), idem per i peperoni, le melanzane, le lattughe, i fagioli, le carote, le cipolle, le patate e tutto ciò che mettiamo ogni giorno in tavola. La globalizzazione del cibo in sostanza ha avuto degli effetti devastanti sull’agricoltura tradizionale e se non fosse per le associazioni di volontariato che si occupano di conservare e preservare i semi antichi (cosiddette “seed savers” – salvatori di semi) negli ultimi decenni avremmo avuto una massiccia estinzione di migliaia di varietà di piante ortive e da frutto a favore delle sementi ingegnerizzate prodotte dalle multinazionali del settore chimico-agro-industriale. Finalmente anche la politica si è accorta di questo grande pericolo: proprio il governo italiano recentemente ha attivato i poteri speciali per impedire la vendita della società Verisem (azienda romagnola specializzata in sementi per ortaggi) a Sygenta, primo gruppo agrochimico mondiale attualmente controllato dal colosso cinese Sinochem. Per una volta almeno un pesce enorme (in senso finanziario) non è riuscito a mangiare un pesce piccolo pieno di conoscenze, competenze e professionalità in un settore strategico per l’alimentazione umana.
C’è però ancora un altro grande problema globale che è stato finora trascurato, ma che qualcuno ha già cominciato a risolvere, prima in chiave economica che ecologica, per trovare soluzioni che possono dare un grande contributo anche nel contrasto ai cambiamenti climatici. Partiamo intanto dal problema trascurato. I prodotti e i piatti tradizionali che contraddistinguono tutte le culture alimentari in ogni angolo del mondo dovrebbero essere realizzati e realizzabili solo con certe materie prime vegetali e animali che determinano le loro caratteristiche tipiche: sapore, proprietà organolettiche originali, preparazioni gastronomiche particolari, principi attivi per la cura di tante malattie, possibilità di difesa naturale delle colture agricole da diverse patologie, varietà resistenti agli insetti locali e, in ultima istanza, la salvaguardia della biodiversità caratteristica dei luoghi di origine. Ad ogni coltura agricola è sempre abbinata anche una cultura tradizionale e per questo, ad esempio, preparare e gustare una pizza napoletana fatta con farina proveniente dal Canada (che ha un alto contenuto di glutine), la salsa fatta con prodotto proveniente dalle serre idroponiche olandesi (o magari dalla Cina) e con un qualsiasi formaggio filante prodotto chissà dove (che non ha nulla a che fare con la mozzarella), è cosa ben diversa dal preparare e gustare una pizza fatta con gli ingredienti prodotti nella zona di Napoli. Non siamo dicendo che è sbagliato fare la pizza con gli ingredienti che ci pare, ma solo che ad un piatto tipico locale dovrebbero corrispondere materie prime altrettanto locali. Estendendo questo semplice concetto, si comprende bene il valore inestimabile che potrebbe avere la reintroduzione di varietà di verdure, ortaggi e alberi da frutto che i sistemi intensivi e altamente chimico-dipendenti dell’agricoltura moderna ha portato all’abbandono. Questo alto valore va inteso sia in senso economico (in termini di recupero produttivo e di conservazione delle varietà) ma anche in senso ecologico, vista la loro maggiore resistenza alle avversità.
Oltre alla conservazione della biodiversità, in prospettiva i frutti antichi giocheranno un ruolo importante sia per rilancio dell’agricoltura sostenibile che per il contrasto ai cambiamenti climatici. Perché? Gli alberi da frutta antichi, evolvendosi geneticamente in modo autonomo, già nei millenni passati hanno superato le avversità climatiche e parassitarie grazie alle loro caratteristiche: elevata resistenza a stress idrici e termici come freddo, ondate di calore e siccità estive; elevata efficienza nell’utilizzazione dell’acqua nel terreno; elevata efficienza nell’assorbimento e utilizzazione dei ridotti ma equilibrati apporti nutritivi; elevata resistenza alle malattie; bassa o nulla necessità di trattamenti fitosanitari. Importanti in tal senso sono proprio gli aspetti di natura storico-culturale che, con il recupero di queste produzioni, porteranno i territori a riscoprire il paesaggio e le coltivazioni di una volta, anche per far riassaporare alle nuove generazioni i frutti antichi che hanno sfamato i loro genitori e loro nonni. Il ritorno alle produzioni antiche quindi è un classico esempio di Soluzione Basata sulla Natura (NBS – “Nature Based Solutions”) in grado di dare risposte sinergiche alle varie emergenze della nostra epoca.
Tra i primi a livello mondiale ad accorgersi di questa grande potenzialità c’è stata la federazione francese Renova, formata da appassionati/professionisti del settore e specializzata nel rivitalizzare le piantagioni e aiutare le persone a imparare a potare gli alberi, raccogliere e trasformare i loro prodotti. Circa 30 anni fa, sotto i piedi dei Pirenei, nei dipartimenti dell’Ariège e dell’Alta Garonna (sud-ovest della Francia), c’erano tantissimi antichi frutteti ormai completamente abbandonati. In quest’area caratterizzata da effetti di moderazione del clima dovuta alle montagne vicine, i produttori locali riuscivano a mantenere i loro raccolti in condizioni di buona commestibilità i loro frutti fino alla primavera successiva, con un vantaggio economico e alimentare significativo perché lo stoccaggio prevedeva pochi e precisi accorgimenti. Ad iniziare dagli anni Cinquanta del secolo scorso le piantagioni di frutta commerciale avevano iniziato a causare il collasso dell’economia frutticola locale con il conseguente abbandono delle coltivazioni. Ma le colline in pendenza e le caratteristiche specifiche dei terreni agricoli hanno impedito la diffusione sistematica della frutticoltura commerciale. Dagli inizi degli anni Novanta si è riacceso l’interesse per gli alberi da frutta tradizionali, vista la ricchezza di varietà disponibili. Si sono cominciate ad organizzare giornate aperte per scolari e studenti e lavorare con i membri emarginati della società. E’ rinato così un centro di lavorazione collettiva di frutta e verdura che è stato messo a disposizione sia dei piccoli agricoltori che dei privati facendo risparmiare loro i costi di degli impianti aziendali individuali e altre importanti spese di capitale. Oggi il centro possiede anche una biblioteca, numerosi inventari di varietà locali ed esemplari di piante per la propagazione delle varietà nei vivai dei due dipartimenti.
Dal luglio 2008, 45 produttori (tra i quali molte donne) si sono riuniti nella Société d’Intérêt Collectif Agricole (Società Agricola di Interesse Collettivo – SICA) con la creazione di un apposito punto vendita e di un laboratorio di trasformazione di frutta e verdura per fare succhi, marmellate, zuppe e conserve dai prodotti appena raccolti. Complessivamente l’iniziativa di Renova ha rivitalizzato circa 10.000 alberi secolari, ne ha piantati altri 10.000 ed ha coinvolto oltre 1.000 persone nei lavori di produzione, trasformazione e commercializzazione. Tutti i prodotti tipici locali hanno trovato in questo modo la possibilità di essere valorizzati nuovamente. Nell’aprile 2011, quasi 100 abbonati hanno concretizzato l’ambizione comune di amplificare l’introduzione di prodotti locali nella ristorazione collettiva dell’Ariège creando un’altra società cooperativa di interesse collettivo “Terroirs Ariège Pyrénées”, con una piattaforma logistica e di servizi dedicata alla cosiddetta “filiera corta” della commercializzazione. E visto il successo dell’iniziativa sul patrimonio frutticolo e di sistemi di produzione rispettosi dell’ambiente, le attività di valorizzazione sono state poi estese negli ultimi tempi anche alle razze di animali tradizionali, ai cereali e agli ortaggi. Il ripristino del paesaggio agrario è stato straordinario, malgrado la continua minaccia da legislatori regolatori, nazionali ed europei che proseguono nell’intento di omologare e standardizzare le produzioni agricole (prima con gli OGM ed ora con gli NBT) per ragioni prevalentemente commerciali. L’iniziativa di Renova è diventata un esempio di come la forza delle comunità può garantire alle nuove generazioni un futuro sostenibile basato sulla preservazione della biodiversità e non sulla sua distruzione.
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