Prendere due piccioni con una fava, è un modo di dire italiano che indica la possibilità di risolvere due o più problemi con un solo intervento: una prova di genialità. I due problemi in questione sono dati dall’enorme consumo di plastica non biodegradabile ricavata dal petrolio e l’eccesso di anidride carbonica nell’atmosfera (CO2) che sta alterando il clima planetario. Sono problemi strettamente connessi tra di loro e rappresentano perfettamente la stupidità del modello economico oggi ancora imperante sulla Terra. Il petrolio non è altro che il deposito di sostanza organica degradata accumulatasi nei millenni nei giacimenti sotterranei e sottomarini. A sua volta quella sostanza organica si è formata attraverso la fitosintesi delle piante e l’attività metabolica dei cianobatteri (dette impropriamente alghe azzurre), che nell’arco di centinania di milioni di anni hanno utilizzato proprio l’anidride carbonica e il sole per produrre ossigeno. Il carbone e il gas naturale a loro volta sono dei derivati di questa deposizione millenaria di sostanza organica. Ma nell’arco di appena tre secoli (un battito di ciglio rispetto ai tempi biologici) con le loro attività predatorie di queste importanti risorse naturali gli esseri umani sono riusciti a far tornare la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera agli stessi livelli di 800mila anni fa, quando l’umità, anche se ancora in forma primordiale, ancora non esisteva. In questo brevissimo lasso di tempo le attività umane hanno raddoppiato la CO2 presente nell’atmosfera. Nell’epoca pre-industriale la concentrazione variava tra un minimo di 150 ppm (parti per milione) ad un massimo di 250-300 ppm: questi picchi corrispondevano alternativamente alle ere di glaciazione e di relativo riscaldamento del pianate: ere che di solito duravano millenni.
Noi invece siamo ormai prossimi al livello di irreversibilità per il nostro clima: livello che la comunità scientifica (onesta) ha stimato in 430 – 440 ppm, mentre il tempo per intervenire urgentemente è ormai scaduto. Tra l’altro occorre ricordare che questo gas non si mischia in tutti gli strati dell’atmosfera: il peso specifico dell’anidride carbonica è più pesante della media degli altri gas presenti nell’aria e quindi tende a concentrasti negli strati più bassi e al livello del suolo, in particolar modo nei luoghi con scarsa ventilazione. Alte concentrazioni di CO2 insieme alla presenza di polveri e aerosol inquinanti, soprattutto nelle città, determinano sistematicamente l’adozione di misure di contrasto momentaneo (quasi sempre la chiusura del traffico veicolare), mentre occorrerebbero interventi risolutivi e di lunga durata. A livello politico i decisori dimostrano di essere del tutto imprearati e tentennanti (quando va bene); per non parlare dell’atteggiamento assunto dai governi sovranisti e negazionisti dei cambiamenti climatici (quando va male). Anche in questo caso comunque è la stessa Natura, la vittima principale della predazione delle sue risorse, a fornirci le soluzioni. Lo schema, per l’appunto, è quello geniale dei due piccioni con una fava.
Bisogna affrettare la transizione energetica verso modalità di trasporto, di riscaldamento, di produzione e di consumo sostenibili, per mitigare gli effetti del cambiamento climatico: questo è ormai fuori discussione. Ma allo stesso tempo dobbiamo trovare velocemente soluzioni che sequestrino l’eccesso di gas climalteranti. Il “trucco” utilizzato dai processi naturali per non produrre rifiuti e sprechi, senza alterare bruscamente il clima, grosso modo è lo stesso: far diventare ogni materia cibo per altri esseri viventi, che poi a loro volta diventano nutrimento ancora per altri … e così via. La stessa materia può essere mortale per alcuni (la CO2 in eccesso lo è per gli esseri umani in un ambiente chiuso e senza ricambio d’aria), mentre può essere una vera e propria “leccornia” alimentare per altri. Questo vale in particolare per l’anidride carbonica che grazie alla fotosintesi viene utilizzata dalle piante per la loro crescita, restituendoci ossigeno. Ma la CO2 è anche il cibo preferito per alcune specie di microrganismi oceanici fotoautrofi (cioè che sono in grado di produrre da sè cibo, energia e altri prodotti organici con la fotosintesi), analogamente a quanto fanno le piante, le alghe e i cianobatteri. Questi microrganismi sono anche capaci di produrre in modo naturale il poliidrossibutirrato (PHB), una sorta di sottoprodotto dell’alimentazione, che viene utilizzato ormai su larga scala per produrre bioplastiche. Contrariamente a quanto avviene con le plastiche sintetiche ottenute dalle fonti energetiche fossili (in particolare il polipropilene e il polietilene) e che di solito impiegano secoli per decomporsi, le bioplastiche ottenute dal PHB si degradano naturalmente entro un anno nel caso finiscano negli oceani o comunque in acqua salata. In tal modo possono essere riutilizzate di nuovo come cibo dai medesimi microrganismi, rendendo così l’emissione complessiva del carbonio negativa: è più quella che si sottrae dall’atmosfera di quella che viene immessa. Questa tecnologia facilmente replicabile è stata messa a punto dall’azienda californiana AirCarbon (gruppo Newlight Technologies) per produrre una bioplastica facilmente utilizzabile e senza sprechi: la produzione riguarda sia i beni di largo consumo che gli imballaggi commerciali standard e personalizzati.
Gli organismi autotrofi per eccellenza comunque restano gli alberi e piantarne il maggior numero possibile rappresenta la soluzione più efficace per attenuare gli effetti dei cambiamenti climatici. Ogni specie di albero comunque, come del resto qualsiasi specie vivente, ha la sua particolare “dieta carbonica” dalla quale dipende anche la possibilità di ottenere determinate materie prime. Sempre nel settore delle bioplastiche è conosciuta la tecnica di ricavare la gomma naturale (il poli-isoprene) dagli appositi alberi. Bioplastiche si ricavano anche dall’albero dell’acetosella (vedi foto quì di fianco). Meno note fino a poco tempo fa erano le proprietà della suberina che è un costituente essenziale del sughero e che dal punto di vista chimico è un’altra bioplastica espressa sotto forma di poliestere di acidi organici. Come noto a sua volta il sughero si ottiene dalla corteccia di una particolare specie di querce molto longeva (Quercus suber – detta appunto “quercia da sughero”) presente esclusivamente nei paesi mediterranei. La corteccia viene asportata periodicamente con cicli decennali dagli esemplari che raggiunto almeno 15-20 anni di età. Il primo asporto, detto “sughero maschio” non ha molto valore commerciale e viene usato prevalentemente come isolante termico nelle costruzioni. I tagli successivi, definiti “sughero femmina”, sono destinati alla produzioni di tappi per bottiglia e di solito si realizzano quando, di volta in volta, la corteccia ha raggiunto lo spessore di 5 centimetri.
Tagliarla prima significa accorciare la longevità dell’intera pianta, che comunque non supera di solito i 100-150 anni di età. Naturalmente con la corteccia viene asportata anche la CO2 che è stata immagazzinata dall’albero e quindi la fissazione complessiva del carbonio atmosferico è a sua volta di grandi quantità. Essendo però la richiesta di sughero del mercato molto elevata rispetto alla produzione attuale (per questo i tappi vengono sostituiti con quelli di plastica) è in corso la tendenza ad accorciare i cicli di decorticazione, che a loro volta provocano progressive riduzioni delle superfici boscate con questa specie di pianta. Piantare querce da sughero quindi rappresenta un’altra ottima soluzione per cogliere due piccioni (anzi, tre) con la stessa fava: produzioni sostenibili, contrasto ai cambiamenti climatici e creare nuove opportunità di lavoro.
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