Una dieta diversificata è sempre garanzia di una buona alimentazione e una buona alimentazione è sempre una garanzia per la nostra salute. Tutti i nutrizionisti del mondo conoscono e consigliano questa fondamentale connessione tra alimentazione e salute, ma nella realtà di tutti i giorni assistiamo impotenti al progressivo declino della biodiversità nei sistemi terrestri, marini e d’acqua dolce di questo pianeta. Tutelare la diversità delle specie, varietà e razze di alimenti vegetali e animali, siano questi allevati o selvatici, dovrebbe essere considerata una priorità sanitaria mondiale, come purtroppo ci sta insegnando la pandemia da Covid 19. Ed invece sembra che si tratti di un problema esclusivamente ecologico, relegato alla sensibilità degli ambientalisti e di poche persone più preoccupate di tutelare l’ambiente e gli animali piuttosto che gli esseri umani. Per spiegare questa gigantesca contraddizione logica, ricorriamo questa volta ad un paradosso.
Nomi come Anna Maria, Emilia, Franca, Giovanna e Paola sono molto diffusi in Europa; sono nomi però che presto potrebbero scomparire, almeno in Italia. Questo non perché improvvisamente cadranno in disuso tra la popolazione, ma semplicemente perché fanno parte di un particolare tipo di famiglia: è quella delle uve autoctone che sono sempre meno coltivate in questo paese, perché sostituite da pochi tipi di vitigni, soprattutto di origini francesi, che ormai vengono coltivati in tutto il mondo (nella foto qui sotto un grappolo di uva “Anna Maria”, quasi del tutto scomparsa). In Italia infatti nei secoli sono stati impiantati oltre mille tipi di uva da vino e tutt’oggi ne esistono circa 250, ma la stragrande maggioranza delle coltivazioni ormai riguarda solo 9 varietà. Lo stesso discorso vale per i formaggi: la più importante organizzazione italiana degli agricoltori (la Coldiretti) circa dieci anni fa ne ha contati 515 a livello nazionale e di questi 43 erano e sono DOP (Denominazioni di Origine Protetta), cioè che essendo prodotti in una determinata zona e in un determinato modo, non possono essere falsificati con denominazioni uguali o simili di prodotti fatti in altri luoghi anche se nello stesso modo. Gli esempi con altre categorie di prodotti alimentari tipici delle zone di origine potrebbero continuare all’infinito, perché la diversità genetica e le potenzialità offerte dai territori a livello globale a sua volta è pressoché infinita, in quanto è ricchissima di specificità e di saperi tradizionali. Restando al caso dell’Italia, è proprio questa specificità che viene esaltata in tutto il mondo come “dieta mediterranea”.
Tutto questo bel patrimonio, però (a proposito di diversi tipi di ricchezza) periodicamente deve fare i conti con le spinte delle lobby chimico-agro-alimentari verso l’omologazione a livello mondiale dei consumi. L’ultima in ordine di tempo e di “potenza di fuoco” è stato il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), un negoziato internazionale avviato nel mese di agosto 2013 tra le nazioni del Nord America (USA in testa) e i Paesi dell’Unione Europea. La discussione, svoltasi quasi esclusivamente in segreto, riguardava l’apertura di un unico mercato di libero scambio tra le due sponde dell’oceano Atlantico; il nome del trattato derivava da questa indicazione geografica. La commissione UE giustificava il raggiungimento di questo accordo con la necessità di abbattere le barriere di ingresso delle merci tra le rispettive aree, oltre alla solita storia di accorciare le distanze e velocizzare tale scambio per favorire l’economia. Tutte cose auspicabili in teoria, soprattutto in un tempo di crisi come quello che stiamo attraversando ormai dal 2008. Solo che ancora una volta, come già successo con l’istituzione dell’area di libero scambio tra i paesi dell’UE, insieme all’acqua sporca si rischiava di buttare via anche il bambino.
La logica di fondo è sempre la stessa: a fare la differenza doveva e deve essere solo il prezzo di vendita e non la modalità con la quale è stata prodotta una determinata merce, alimenti inclusi. Tutto il sistema di regolamentazione dei prodotti tipici (ad esempio i disciplinari tecnici per produrre i vini e i formaggi nostrani) rischiava di essere messo a repentaglio. Ne parliamo al passato perché questo tentativo di “omologazione” dell’alimentazione mondiale è fallito nel settembre 2016.
Come già avvenuto per gli OGM (che comunque erano parte in causa anche del TTIP) sono state due questioni di fondo a far saltare l’accordo. La prima riguarda il principio della prevenzione sulle procedure igienico-sanitarie (più restrittive o blande a seconda della sponda dell’Atlantico interessata) necessarie per mettere in commercio i prodotti alimentari; negli USA si può commerciare tutto a patto che non si dimostri essere nocivo (il che può avvenire anche a distanza di decenni), mentre in Europa vige il principio opposto: in base al principio della prevenzione, si commercializza un prodotto solo quando si è certi che non sia dannoso (questo è il principio che ancora tengono bloccati gli OGM e a rischio di non rinnovo il glifosate in ambito europeo). La seconda questione riguardava la procedura per risolvere gli inevitabili contenziosi tra le imprese e i governi statali. Per gli Stati Uniti, le decisioni dovevano essere affidate a dei collegi di avvocati esperti di diritto internazionale ( i cosiddetti arbitrati), mentre l’Europa optava per un tribunale speciale e specifico composto da magistrati ordinari. Nel fallimento della trattativa comunque hanno avuto un ruolo determinante le organizzazioni non governative e di volontariato che in tutto il mondo si battono contro l’omologazione alimentare.
Infatti, il pericolo maggiore rappresentato dal TTIP era l’abbattimento di gran parte delle leggi che fino ad allora avevano ed hanno regolamentato gli scambi commerciali tra le due aree geografiche. Addirittura si stava paventando l’ipotesi che le multinazionali potessero citare in giudizio in Tribunale (non era chiaro dove) il governo di una nazione sovrana che decideva in senso contrario ai loro interessi. Il rischio quindi era quello di vedersi invadere i mercati nazionali da prodotti fatti con OGM, carne imbottita di ormoni, concentrazioni eccessive di antibiotici, pesticidi nei mangimi o nell’alimentazione umana, polli igienizzati con cloro ed altro “cibo spazzatura”. La cultura alimentare millenaria europea, mediterranea e italiana in particolare, con le relative conquiste in termini di salute e di protezione verso i consumatori rischiava di fare una brutta fine. Il fallimento del TTIP sembrava l’inizio della riscossa per la valorizzazione della biodiversità, dell’immensa ricchezza che la natura ci regala e della libertà di poter coltivare in modo indipendente dai colossi del settore che vogliono imporre i loro semi sterili (con annessi pesticidi e fertilizzanti): in altre parole, la democrazia in ambito alimentare che difende e garantisce la nostra salute. Nello stesso periodo infatti arrivava dall’UE un’altra buona notizia: ciascuno dei 28 Stati membri dell’Unione Europea poteva vietare sul proprio territorio la coltivazione degli Ogm. Ma poi, come spesso accade, rispetto alla valorizzazione “sanitaria” della biodiversità alimentare, presto i riflettori si sono spenti. C’è voluto Covid 19 per riaccenderli: una pandemia causata dalla catastrofica perdita di biodiversità che stiamo imponendo all’intero pianeta che ci ospita.
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