Ci sono alcuni “sporchi segreti” dietro il piacere che ci da la degustazione di una barretta di cioccolato: lo sfruttamento del lavoro minorile, la riduzione in schiavitù dei lavoratori e la sostituzione di alcune materie prime con un frutto che è la base dell’alimentazione dei poveri. Sporchi segreti che, purtroppo, sono stati nuovamente nascosti da una discutibile sentenza dell Corte Suprema degli Stati Uniti del giugno scorso che ha rifiutato di ritenere i grandi produttori mondiali di cioccolato responsabili del lavoro minorile e dei sistemi di schiavitù che si realizzano nelle loro catene di approvvigionamento delle materie prime. La stessa sentenza però non ha potuto nascondere definitivamente il problema ed anzi, per certi aspetti lo ha rilanciato. Andiamo per ordine.
Il fenomeno è noto da tempo ed è stato ulteriormente confermato da una recente indagine svolta dal Centro Nazionale di Ricerca dell’Università di Chicago (NORC). Quasi 3/4 della produzione mondiale delle fave di cacao (per la precisione il 73,8%) avviene in appena 4 paesi sub tropicali dell’Africa occidentale: Costa d’Avorio (45,9%), Ghana (16,9%), Camerun (5,8%) e Nigeria (5,2%). Questa produzione genera un fatturato di oltre 100 miliardi di dollari all’anno per le industrie del settore, ma ai produttori arriva solo il 6,6% del prezzo di una tavoletta. Da questa enorme disparità è nato già da alcuni decenni a livello mondiale il commercio equo e solidale (non solo per il cacao), al quale quale le grandi multinazionali del settore hanno cercato di rispondere con sistemi di controllo e certificazione che avrebbero dovuto eliminare gli abusi denunciati dalle varie organizzazioni internazionali. Risultato? Il prezzo spuntato alla produzione da queste multinazionali, che non copre i costi di produzione, era ed è rimasto il fattore chiave per i loro rapporti commerciali con questi paesi. Il rapporto del NORC ha dimostrato che nelle regioni della Costa d’Avorio e del Ghana (dove avviene il 62,8% della produzione mondiale di fave di cacao), la quota del lavoro minorile nelle piantagioni è aumentata del 14 per cento, passando dal 31 al 45 per cento tra il 2008 e il 2019. Altri studi hanno accertato che nel solo Ghana, mediamente vengono impiegati 1,56 milioni di bambini, che in molti casi hanno l’età di appena 5 anni. La felicità che accompagna i nostri bambini quando gli si dà una barretta di cioccolato quindi dipende anche da questa agghiacciante realtà dell’infelicità dei loro coetanei schiavizzati. Ma per la Suprema Corte degli Stati Uniti questo non è un problema. La causa giudiziaria era stata intentata nel 2005 da sei lavoratori del Mali, altro paese dell’Africa occidentale, nei confronti di due colossi della produzione mondiale del cioccolato: Nestlé e Cargill. I lavoratori hanno sostenendo di essere stati ridotti in schiavitù da bambini per lavorare nelle piantagioni, hanno descritto come dovevano lavorare per lunghe ore senza paga, soffrire la fame, assoggettarsi a condizioni di lavoro pericolose e subire percosse brutali. La causa giudiziaria è stata basata sull’Alien Tort Statute (ATS), che consente agli stranieri di intentare azioni legali nei tribunali statunitensi per violazioni del diritto internazionale. I legali dei sei lavoratori hanno sostenuto che le due società citate in giudizio, pur non possedendo o gestendo direttamente le piantagioni in cui lavoravano, con l’acquisto della produzione avevano consapevolmente aiutato e favorito le violazioni dei diritti umani, fornendo agli agricoltori schiavisti strumenti e risorse tecniche e finanziarie.
La Corte ha ritenuto troppo tenue il collegamento tra le multinazionali e le aziende che sfruttavano questi lavoratori in particolare, ma allo stesso tempo ha affermato che le aziende schiaviste possono ancora essere ritenute responsabili di tali abusi ai sensi dello statuto ATS. Di fatto la sentenza ha stabilito che c’è un livello elevato di correlazione e di ammissibilità nella richiesta di risarcimento per le violazioni dei diritti umani, ma lascia a chi li ha subite la responsabilità di trovare una nuova soluzione agli stessi misfatti. Comunque sia i grandi produttori mondiali di cioccolata, non possono essere ritenuti responsabili degli abusi che si compiono in nome e per conto dei loro affari. Nestlé e Cargill, anche se a suo tempo si erano impegnate a rispettare i Principi guida internazionali contro lo schiavismo, hanno depositato in corso di causa memorie per dire che consentire azioni legali come quella potrebbe danneggiare la “competitività americana”. Come a dire: “non si vorrà mica che il cioccolato d’ora in poi esca fuori dal solco colonialista che governa gli affari di questo mondo…”
La produzione mondiale di cacao comunque, soprattutto a causa dell’aumento del reddito individuale mondiale, nonché dei cambiamenti climatici in corso, è entrata in grandi difficoltà negli ultimi anni. Un frutto dei poveri è stato individuato come un’ottima risposta sia per la “crisi” del cioccolato, che per la produzione alimentare in generale. Con la progressiva crescita dei consumi alimentari nei Paesi prima caratterizzati dalla povertà, Cina e India in primis, e che da soli rappresentano oltre un terzo della popolazione mondiale, stanno sorgendo problemi di approvvigionamento di alcuni prodotti agricoli per i Paesi ricchi. Uno di questi è proprio il cacao. A livello mondiale, attualmente, se ne producono circa 3,8 milioni di tonnellate all’anno, ma la richiesta stimata per il 2025 è di 5 milioni. Non è possibile attendersi un parallelo incremento dell’offerta nei prossimi anni per vari motivi: coltivare la pianta del cacao, che si sviluppa solo nei climi tropicali e sub-tropicali, richiede grossi investimenti iniziali e la produzione vera e propria inizia solo dopo il quinto anno dall’impianto. Inoltre, per ottenere la pasta e il burro di cacao, occorre un lavoro lungo e particolare. Infine, la produzione dura circa trent’anni, poi bisogna procedere ad una nuova piantumazione. Si comprende bene la necessità per gli scienziati, le industrie del settore e per tutto l’indotto commerciale, di individuare altri tipi di coltivazioni che consentano di produrre e vendere cioccolata a prezzi accessibili, sia per le popolazioni meno abbienti che per quelle del mondo cosiddetto ricco. Ovviamente garantendo le medesime e riconosciutissime caratteristiche: aroma e sapore in primo luogo. Come sempre è la Natura ad aver già individuato la soluzione, anche allo sfruttamento minorile. Si chiama “giaca” (nome botanico Artocarpus heterophyllus – vedi foto a sinistra) ed è il prodotto del più grande albero da frutto esistente al mondo. Alcuni anni fa i ricercatori dell’Università di San Paolo (Brasile), sulla rivista scientifica “Journal of Agricultural and Food Chemistry”, hanno riferito che i composti presenti nei semi di quest’altro albero tropicale producono aromi simili a quelli del cacao.
Ma con la differenza che sono potenzialmente già disponibili e ad un costo notevolmente inferiore. Come spesso avviene, la scoperta è arrivata per via indiretta. L’albero del “giaca” è considerato il cibo dei poveri in India. Il Brasile è il più grande produttore di cacao del Sud America e finora i semi di questo frutto (in inglese “jackfruit”) erano considerati rifiuti. Ma grazie alle sue caratteristiche nutrizionali, il giaca, pur appartenendo ad una famiglia botanica diversa, è risultato produttivamente molto simile al cacao. Gli studiosi brasiliani, hanno determinato che ben 27 farine, prodotte mediante acidificazione o fermentazione dei semi di questo frutto, potrebbero essere utilizzate per la produzione degli aromi del cioccolato.
Anche gli altri paesi sub-tropicali del mondo si stanno muovendo in questa direzione. Nell’Est asiatico e nelle Filippine in particolare, dove la coltivazione dell’albero del giaca risale ai secoli scorsi e dove gli abitanti sono abituati a mangiare cibi particolarmente dolci, già dal 2012 è stato messo a punto un progetto industriale per produrre cioccolata con i semi di questo frutto. Nell’intenzione dei proponenti, i principali consumatori del prodotto dovrebbero essere i bambini, ma anche le persone attente alla propria salute. L’ipotesi produttiva, orientata al rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, è quella che caratterizza l’assunzione di cioccolata nei paesi ricchi: prevenire e curare la tensione nervosa, prevenire la stitichezza, apportare potassio nell’alimentazione, oltre ad abbassare la pressione sanguigna. Malattie tipiche delle persone che vivono nei paesi dove si possono ignorare, tra l’altro, come e a che prezzo ambientale e sociale viene prodotta la cioccolata di cui sono molto golose.
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