L’idea di una crescita materiale illimitata e sul prezzo più basso di ogni cosa, ci sta portando al collasso ecologico ed economico: lo sappiamo. Vendere nei supermercati italiani limoni prodotti in Argentina senza considerare i costi di trasporto e della catena per la refrigerazione del prodotto è solo l’ultimo esempio che abbiamo riportato su questo sito. Alcune ricerche indipendenti francesi hanno calcolato che gli attuali sistemi alimentari, incluso l’uso del suolo, generano ogni anno 12mila miliardi di dollari di costi “nascosti” per l’ambiente, la salute e la povertà, superando così il valore di mercato della produzione annuale del sistema alimentare globale. La pandemia da Covid-19 sta amplificando ulteriormente questo squilibrio. E allora, quale potrebbe essere la strada alternativa a questa stupida idea che sta esasperando l’estinzione delle specie, il riscaldamento globale, la crisi energetica e crescente disuguaglianza economica a livello planetario? Da molti punti di vista la più promettente è sicuramente quella di organizzare economie locali “rigenerative”, cioè che rigenerano sistematicamente le risorse naturali dalle quali dipendono le attività economiche: l’esatto contrario dell’economia “estrattiva” che invece quelle risorse le ha sempre prelevate, degradate, inquinate e trasformate in rifiuti. Sembra una cosa molto complicata, ma in realtà è più facile a farsi che a dirsi. Basta una buona volontà di cambiare le cose, un po’ di memoria e qualche accorgimento che oggi ci consente la tecnologia per non compiere gli errori del passato. Perché di errori, anche madornali, ne sono stati fatti tanti da tutti coloro che hanno cercato di contrastare l’attuale sistema dominante. Ed è bene fare chiarezza da subito su questi errori, perché anche le alternative che proponiamo, altrimenti avrebbero poca credibilità.
Il fatto che la transizione all’economia ecologica debba passare per la nostra responsabilità individuale e per i cambiamenti degli stili di vita personali, è fuori di dubbio. Il problema è stabilire come si realizza questa transizione e chi la determina. Tantissimi stili di vita modificati ma che restano sostanzialmente isolati l’uno dall’altro, non determinano alcun cambiamento ma un semplice adattamento del sistema alle nuove sensibilità di persone che, consumatori passivi erano prima e tali devono restare anche dopo. E’ il fenomeno del “greenwashing” in base al quale oggi ormai è impossibile trovare in un supermercato un prodotto che non sia indicato come ecologico, rispettoso della natura, biologico, amico della natura, biodegradabile, ecc. Il sistema è sempre in grado di rispondere con una “merce adattata” all’occorrenza e alle aspettative di cambiamento. Molte persone sono convinte di aver modificato completamente il loro stile di vita solo perché oggi comprano esclusivamente prodotti ecologici: ma questo è proprio quello che il sistema si aspetta da loro. In fondo, questo è lo stesso motivo per il quale, sconfinando un attimo nella politica, le migliaia di gruppi alternativi che esistono in ogni paese del mondo, tranne qualche raro caso, non sono mai riusciti a costruire una forza politica in grado di influenzare veramente le scelte dei governi nazionali e globali. Ogni gruppo o movimento tende sempre a mantenere la propria autonomia come una forma di auto-difesa della propria identità. Nessuna “cessione di potere decisionale” quindi è possibile ad altri livelli, anche se di semplice coordinamento con altri gruppi e movimenti che si occupano degli stessi problemi. In questo modo saranno sempre gli stessi soggetti che hanno gestito l’attuale modello insostenibile a proporre e decidere quale sarà il (loro) modello di sviluppo “sostenibile”. In ogni settore della vita sociale quindi non ci si può aspettare alcun cambiamento se le stesse scelte individuali non diventano collettive e condivise con azioni comuni: in particolare per quelle indirizzate ad ottenere lo stesso obiettivo in determinato periodo di tempo.
Grazie ai social media oggi questo è possibile in modo relativamente semplice. Decisivi diventano gli stessi social quando le iniziative riguardano le transizioni nelle politiche locali e regionali.
A livello locale le persone possono istaurare un dialogo diretto, organizzare incontri e aprire discussioni sui temi che li riguardano. Possono rivolgersi direttamente ad altre persone piuttosto che ai rappresentanti politici eletti nelle istituzioni. Possono intraprendere azioni legali, ma anche semplici iniziative dimostrative non violente (flash mob e sit-in) e portare avanti progetti con la collaborazione di tutti gli interessati. Il fattore determinate è sempre l’unità degli intenti, che viene raggiunta con l’animazione, la mediazione, l’impostazione e la costruzione verso un obiettivo condiviso. Le persone residenti in un determinato territorio quindi possono esercitare un’influenza decisiva sulle scelte di fondo che riguardano la loro stessa comunità. Anche questo importantissimo aspetto sociale, non è una novità. E’ proprio da queste considerazioni che sono sorti nella seconda metà dell’Ottocento in Italia, il movimento cooperativistico, i consorzi alimentari e le casse rurali. Un modello di organizzazione sociale che ha trasformato completamente l’intera economia italiana e che è stato quasi completamente abbandonato negli ultimi decenni in favore dello stesso modello economico che ci sta portando al disastro. E siccome quello era un modello che funzionava bene per davvero (altroché “greenwashing”) in tante parti del mondo lo si sta riscoprendo. Abbiamo esaminato vari casi di idee di comunità innovative europee che stanno sperimentando modi per accorciare, ampliare e democratizzare le catene di approvvigionamento alimentare, verificando come tali idee potrebbero essere replicate e ampliate. Ci ha colpito in particolare quello che è successo circa tre anni fa al “Festival della mucca di Nantes” tenutosi in un piccolo Comune della Bretagna, nel nord-ovest della Francia. Durante questa festa di tre giorni, organizzata da 1.500 volontari di diversa estrazione, attivisti e non, associazioni varie e singoli cittadini, è stato costituito il “Consorzio alimentare sostenibile” di Redon (nella foto di apertura la piazza del paese), con tanto di stand gastronomici dimostrativi, per sviluppare la filiera alimentare fatta di cuochi, casari, macellai, orticoltori, trasformatori, ecc., per valorizzare le qualità del cibo locale e “spargere la voce” su come lo si produce e lo si trasforma in un modo eccellente e sostenibile al di fuori degli schemi, degli standard produttivi e (soprattutto) dei prezzi imposti dalla Grande Distribuzione Organizzata (GDO). Partendo dalle singolarità e dalle specificità che risultano molto spesso incompatibili (non sempre) con le norme dell’agro-industria, in poco tempo è stata messa in piedi una rete di vendita in azienda, di gruppi di acquisti organizzati, negozi di città gestiti direttamente dagli agricoltori, da drogherie locali, ecc. Partito con un budget minimo (meno di 80mila euro) il consorzio ha già raddoppiato le proprie entrate nel giro di pochi mesi ed ha assunto tre giovani a tempo indeterminato. I soldi dei cittadini quindi non vanno più ad ingrossare i bilanci delle multinazionali della GDO (e ai loro azionisti) per acquistare cibi che spesso fanno più danno che bene alla salute, che non hanno alcun sapore e sono prodotti in modo standard attraverso le macchine. Nell’affrontare la necessità del cambiamento, creando il consorzio, la popolazione locale ha deciso anche di prendere in mano la trasformazione del proprio territorio in modo sostenibile e rigenerativo.
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