Mancano ormai solo 9 anni e l’obiettivo di dimezzare la percentuale di persone che a livello mondiale non hanno un accesso sicuro all’acqua potabile è vicino al fallimento. E’ uno dei principali Obiettivi di Sviluppo del Millennio stabiliti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) prima per il 2015 e poi per il 2030. Il motivo principale di questo fallimento sta nell’idea completamente sbagliata che le società private multinazionali (non quelle pubbliche), perseguendo comunque l’obiettivo del massimo profitto, potessero fornire a prezzi accettabili sia acqua pulita che servizi igienico-sanitari adeguati (fognature e depurazione dei reflui) anche ai poveri. La realtà ha dimostrato invece l’esatto contrario, ma ogni volta che i governi locali hanno cercato di riprendere in mano i loro servizi idrici dopo la scadenza dei contratti, le stesse multinazionali hanno fatto di tutto per continuare a mantenere in piedi la loro fallimentare gestione privatizzata. In questa logica fallimentare i poveri sono stati sempre visti come dei semplici “clienti” ai quali fornire qualche sussidio statale per pagare comunque bollette molto salate: i poveri vengono visti sempre come un onere che qualcun altro deve sostenere e mai una componente essenziale per la soluzione del problema. Gli interessi dei poveri, in sostanza, non sono mai stati rappresentati da nessuno, soprattutto dai politici locali, sempre più spesso risultati corrotti dalle stesse multinazionali. Più in generale, ad aver determinato i fallimenti è stata la totale mancanza di coinvolgimento delle comunità nella gestione dei servizi legati all’acqua: il più essenziale dei beni comuni. Troppo impegnate, da un lato ad ottenere finanziamenti statali e regionali per realizzare gli investimenti promessi all’inizio della concessione, e dall’altro nell’ottenere profitti a tutti i costi con le bollette, le multinazionali non hanno saputo fare altro che negare l’accesso ai servizi proprio ai poveri. Tutto questo però non è successo là dove le comunità, attraverso i loro rappresentanti della società civile, sono state in grado di controllare e influenzare i processi di privatizzazione fino al punto di chieder conto di come si stava gestendo questo servizio fondamentale nel loro territorio. Partendo dalla conoscenza e dalla comprensione dei problemi, i gruppi locali della società civile stanno imparando sempre più gli uni dagli altri su come intervenire efficacemente sui processi di privatizzazione in difesa dei poveri. L’esito è quasi sempre lo stesso: far tornare in mano pubblica la gestione dell’acqua.
Tutti gli abitanti di Porto Alegre, in Brasile, oggi dispongono di un servizio che permette loro, on line con il computer o con una semplice telefonata ad un numero facilissimo da ricordare (il 156), ad esempio, di modificare la data di scadenza di una bolletta, come verificare un consumo eccessivo presso la propria utenza, come richiede ed ottenere la tariffa sociale e persino richiedere che la bolletta stessa venga stampata in linguaggio braille per i non vedenti. Attualmente il 100% degli abitanti, oltre 1,4 milioni di abitanti, è rifornito con acqua potabile, mentre l’87,7% della popolazione dispone di servizi di raccolta e trattamento delle acque reflue: a Latina, la zona dove viviamo in Italia, per intenderci, questa percentuale di trattamento è sotto il 70%. A Porto Alegre si prevede che il sistema fognario e di depurazione arrivi a sua volta al 100% entro il 2035.
Questi risultati sono stati ottenuti da una società interamente pubblica, il Departamento Municipal de Água e Esgoto ( DMAE – Dipartimento municipale delle acque e delle fognature), creata con una struttura partecipativa unica nel suo genere, dedicata esclusivamente al perseguimento del bene pubblico e senza scopo di lucro. La società è governata sostanzialmente da un Consiglio Deliberativo (DC), che è uno dei tre organi di gestione funzionale del DMAE: gli altri due hanno funzioni contabili e organizzative. Questo Consiglio Deliberativo è formato da un gruppo eterogeneo di esperti, delegati di organizzazioni di cittadini e da rappresentanti degli Enti della società civile (unione dei Comuni, l’università federale locale, associazione nazionale di ingegneria, associazione della stampa locale, unione delle associazioni dei residenti, ordine degli avvocati, ecc.). Il Consiglio è un’istituzione apartitica che controlla e approva tutte le operazioni e le decisioni prese dall’organo tecnico-gestionale della società. Anche il modo in cui viene speso il budget è deciso dalle persone: il processo annuale di Bilancio Partecipativo, le cui regole interne sono stabilite dagli stessi cittadini partecipanti, consente loro di scegliere il livello di priorità dei progetti programmati attraverso assemblee di quartiere, assemblee “tematiche” di coordinamento e con apposite sessioni a livello cittadino. Il dipartimento della società composto dal direttore generale e dai suoi sovrintendenti, sono obbligati a fornire il Consiglio tutte le informazioni legali, i piani, i budget settoriali e i rendiconti finanziari, che vengono attuati solo dopo l’approvazione del Consiglio stesso.
La società è anche obbligata a coinvolgere nelle sue decisioni il forum dei suoi lavoratori, gli stessi che alcuni anni fa si sono opposti al tentativo di privatizzazione portato avanti dal neo Sindaco della città: tentativo poi andato a vuoto (foto qui a destra). Il budget aziendale è autosufficiente e non fa ricorso ad alcun finanziamento governativo.
Il modello di gestione partecipativa che si è realizzato in questo modo è specifico di questa città dove tutti i servizi sono gestiti da società pubbliche (quindi difficilmente esportabile “tal quale”), ma intanto Porto Alegre oggi è la città che ha la più alta qualità della vita e il tasso di disoccupazione più basso del Brasile: anche i tassi di mortalità infantile sono tra i più bassi in assoluto, mentre il livello di istruzione generale è di buon livello. A Porto Alegre, in ultima analisi, non è di certo fallito l’obiettivo di portare acqua potabile a tutti: in particolare ai poveri.