Non passa giorno che non si parli dell’invasione aliena della plastica sul nostro pianeta. Allarme dopo allarme però non si dice nulla sul fatto che dei 347 milioni di tonnellate immesse nell’ambiente nel 2017, al ritmo di crescita attuale diventeranno 1,124 miliardi di tonnellate nel 2050: un più 324% in appena trenta anni e che rappresenterà il 20% del consumo globale di petrolio (oggi è al 6 – 7%). Il contributo nell’emissione di gas serra per la sua produzione passera dall’1% del 2014 al 15% del 2050. E’ come se ogni anno, solo con la plastica venisse immesso nell’ambiente il peso corrispondente a quasi 50 piramidi di Cheope o, se si preferisce, a circa 1.400 edifici corrispondenti al Colosseo di Roma. In sostanza tra pochi anni negli oceani, nei mari e nei corsi d’acqua ci sarà più del doppio della plastica che è stata prodotta finora nell’intera storia dell’umanità. Ogni anno infatti almeno 8 milioni di tonnellate di plastica finiscono direttamente negli oceani e vengono spesso scambiati per cibo dai pesci e dagli animali acquatici. Anche qui è utile fare un paragone: è come se si stesse scaricando in acqua un camion al minuto, che diventeranno due entro il 2030 e quattro, i camion e sempre al minuto, entro il 2050. Meglio non andrà per l’atmosfera dove ci saranno in circolazione ulteriori enormi quantità di sostanze pericolose che non faranno di certo bene ai nostri polmoni. Per i princìpi della fisica e della termodinamica una bottiglia di plastica, una volta bruciata in un inceneritore, non scompare nel nulla come spesso si tende a far credere. Si trasforma semplicemente l’energia contenuta in calore, gas, particelle, diossine e ceneri. Paradossalmente quindi quella bottiglia sarebbe molto meno pericolosa se non venisse bruciata.
Allo stesso tempo sono ormai diventate disponibili tante tecnologie per la produzione di bio-plastiche che rispettano e aiutano l’ambiente nell’ottica dell’Economia Circolare. Il problema, come sempre del resto, è rendere queste tecnologie sostenibili sotto il profilo economico, prima ancora che ecologico. Il passaggio dalle plastiche convenzionali a quelle amiche dell’ambiente però non è una transizione semplice da realizzare. Tutto dipende dalle scelte politiche che verranno effettuate nel breve-medio periodo. Ammesso che verranno effettuate delle scelte.
Tra i fattori che faranno la differenza, il costo delle materie da utilizzate per la trasformazione in plastica biodegradabile è sicuramente il più importante e il settore dei rifiuti urbani, costituito per il 55% da carta, da prodotti alimentari di scarto e da tessili, è tra quelli più promettenti. Reintrodurre nei cicli produttivi questi materiali di scarto, che tra l’altro sono recuperabili in modo relativamente facile con il sistema “porta a porta”, può essere una svolta determinante per non creare sul nostro Pianeta nuovi continenti fatti solo di materiali galleggianti. I rifiuti organici domestici recuperabili con la raccolta differenziata diventano quindi strategici per ottenere dei bio-compositi alternativi in grado di sostituire ed eliminare dal consumo la plastica convenzionale. Questo non significa che si debba rendere in qualche modo accettabile l’enorme spreco di cibo che realizza ogni anno a livello globale, visto che dei quasi 4 miliardi di tonnellate di derrate prodotte, circa un terzo finisce per essere buttato via.
Lo spreco annuale del cibo riguarda il 30% dei cereali prodotti su scala globale, il 45% delle radici/tuberi, della frutta e della verdura, il 20% dei semi, della carne e dei latticini e il 35% del pesce e dei frutti di mare: il totale corrisponde a circa 1,3 miliardi di tonnellate. Una quantità di cibo che basterebbe per fornire una dieta “ingrassante” (circa 650 grammi/persona/giorno) ai due miliardi di persone che nel mondo sono ancora soggette, nell’anno 2021, a denutrizione e malnutrizione.
La conversione dei rifiuti organici in bio-plastiche poi deve arrivare al 100% del materiale di scarto riutilizzato perché non è eco-logico, né eco-nomico, usare dei rifiuti per produrre altri rifiuti. Il materiale da ottenere poi, oltre ad essere completamente biodegradabile, deve essere facile da fondere con altri materiali per fornire le necessarie condizioni di robustezza. Deve anche essere facilmente modellabile con effetto plastificante adatto ad ottenere anche le altre prestazioni performanti del prodotto finale: una per tutte, la sicurezza verso i consumatori.
Un’altra questione riguarda i metodi e le procedure, sia di laboratorio che a livello industriale, che vengono utilizzate utilizzano per produrre i bio-composti. Dovendo eliminare prodotti chimici di sintesi dai processi produttivi, in particolare i solventi, i metodi a base d’acqua risultano sicuramente i più vantaggiosi. Bisogna fare attenzione però a restituire all’ambiente la risorsa idrica in condizioni uguali, se non addirittura migliori, di quando è stata prelevata. Un po’ tutte le bio-plastiche finora immesse sul mercato stanno avendo molto successo; ad esempio i teli usati in agricoltura biologica per la cosiddetta “pacciamatura” del suolo, che servono sostanzialmente ad impedire la crescita delle specie infestanti e antagoniste delle colture agricole.
Dunque, oggi le condizioni tecnico-scientifiche per passare ad una nuova economia della plastica con soluzioni basate sulla Natura ci sono tutte. Ma allora come mai la produzione della plastica convenzionale derivata soprattutto dal petrolio sta continuando a crescere ad un ritmo così forsennato? Che cosa bisogna fare per evitare l’ulteriore catastrofe planetaria che abbiamo illustrato all’inizio di questo articolo? Questo è il succo, molto amaro, dell’intera questione: non lo sa ancora nessuno e di fatto siamo ancora all’anno zero. Noi proveremo a fornire delle soluzioni che si possono adottare, se si vuole, anche da domani. Prossimamente su questo sito.
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