Mentre la “Banca dell’Apocalisse” non se la passa molto bene, si moltiplicano nel mondo ed ottengono ottimi risultati le banche dei semi organizzate dalle popolazioni native. Il motivo è abbastanza semplice da spiegare: contrariamente a quanto sta avvenendo allo Svalbard Global Seed Vault, la banca “centralizzata” e collocata nel Circolo Polare Artico che dovrebbe garantire la sicurezza del patrimonio genetico delle sementi a livello mondiale, le banche dei semi organizzate a livello locale rappresentano una sorta di biodiversità di colture e culture tradizionali (leggi anche su questo sito: Le banche indigene dei semi battono quelle dei ricchi – prima parte ). E’ una biodiversità fatta di tecniche agronomiche facili da realizzare, che migliorano la fertilità del suolo a basso costo, rispettano l’ambiente e riescono a salvare anche le foreste pluviali senza dover procedere ad alcun disboscamento. Un esempio di questi “semi magici” è il fagiolo di velluto (nome scientifico Mucuna pruriens), dal quale oggi si ricavano dei preparati farmaceutici contro i sintomi motori del morbo di Parkinson; un legume che un tempo cresceva spontaneo nella foresta pluviale del Centro America e che è stato reintrodotto alcuni decenni fa da alcune Organizzazioni Non Governative (ONG) dell’Honduras e del Guatemala. All’epoca la situazione economica di quella regione era diventata molto critica.
Come è avvenuto praticamente in tutto il mondo, l’introduzione dei prodotti agrochimici a metà del ventesimo secolo ha comportato una apparente efficacia immediata dei fertilizzanti sintetici. Buona parte delle popolazioni native locali, discendenti diretti dei Maya, aveva pensato che questi cambiamenti produttivi potevano risolvere il problema delle carestie e dalla necessità di emigrare per creare nuovi terreni dalla foresta (tradizione antica degli stessi Maya). Ma poi il costo crescente dei prodotti agrochimici aveva costretto moltissimi agricoltori a tornare al lavoro nelle piantagioni create negli anni Settanta. In sostanza, nello spazio di appena due generazioni, i fertilizzanti sintetici avevano prima spostato nel tempo e poi aggravato i problemi che le popolazioni Maya hanno avuto praticamente da sempre: da lì è nata l’idea di rivalutare la “scienza agricola” dei fagioli miracolosi, malgrado il fatto che i conflitti armati scatenatisi nel frattempo nella regione li avevano fatti scomparire q
uasi completamente, in favore delle sementi ibride.
Le nuove generazioni degli agricoltori locali hanno così riscoperto che piantando il fagiolo di velluto tra le file di mais si aumentava notevolmente la resa dei cereali (vedi foto qui a destra). Sia questa specie di fagiolo che altre simili, tipo la Canavalia della foto qui sotto, sono in grado di fissare nel suolo anche 150 chilogrammi di azoto per ettaro all’anno. Gli agricoltori quindi non dovevano e non devono più ricorrere all’urea, il fertilizzante ricavato da un costoso processo chimico-industriale che lo sintetizza dall’aria, perché in questo modo concimano il terreno in modo naturale e gratuito. Inoltre, per ogni ettaro messo a coltura, queste specie di fagioli riescono a produrre annualmente anche 50-100 tonnellate di biomassa, che viene utilizzata poi sia come concimazione verde (il cosiddetto sovescio) che come materiale di copertura per sopprimere e impedire la crescita delle erbe infestanti. Il miglioramento delle condizioni complessive del suolo si ottiene in pochissimo tempo, talvolta anche entro un anno. E una volta reintrodotte e utilizzate queste specie di fagioli gli agricoltori non sono stati più costretti a bruciare e disboscare la foresta per creare nuovi campi da coltivare.
Fatto il primo passo nella direzione contraria ed opposta a quella indicata già allora dalle multinazionali dell’agro-chimica, le popolazioni native (soprattutto le donne) hanno iniziato a mettere in piedi dei centri di raccolta e conservazione dei semi locali. Vere e proprie banche comunitarie che facilitano la raccolta e lo stoccaggio dei semi per lo scambio, l’acquisto e la vendita in primo luogo agli agricoltori locali, nativi e creoli. Questi progetti poi hanno avuto un fondamentale ruolo di traino a livello diplomatico e politico: i semi delle banche indigene sono stati seminati anche in altri paesi (soprattutto gli Stati Uniti) da studenti e sostenitori delle organizzazioni che le avevano promosse.
Oggi queste iniziative ormai interessano tutte le aree del pianeta e non solo quelle caratterizzate dalle foreste pluviali. In Etiopia ad esempio è stato creato l’Istituto per la biodiversità etiope di Addis Abeba. In Malesia è nato il centro Crops For the Future per preservare le varietà tradizionali di riso e altre colture tradizionali rimaste sottoutilizzate dall’avvento delle colture industriali e OGM. Sulle pendici dell’Himalaya un gruppo di donne contadine ha creato la banca dei semi di Navdanya che si trova all’estremità dei campi coltivati della fattoria biologica di Dehradun. E’ il luogo dove è nato e si è sviluppato il riso basmati, una delle varietà di riso più apprezzate al mondo, dove viene coltivato da centinaia di anni. Nella fattoria biologica vengono custodite millenarie conoscenze della sapienza contadina anche attraverso progressivi recuperi della biodiversità locale.
Gli agricoltori dell’Africa subsahariana inoltre, hanno deciso di organizzarsi nelle cosiddette “Genebanks” per conservare migliaia di campioni di piante e semi che possano permettere di affrontare in modo combinato l’emergenza climatica (colture che resistono alla siccità), la malnutrizione (colture più nutrienti) e l’aumento della popolazione (sicurezza alimentare per tutti). Finanziato dal governo della Germania è nato così il progetto “Seeds4Resilience” (semi per la resilienza) che fornirà da supporto tecnico e finanziario alle banche genetiche strategiche di cinque nazioni: Nigeria, Zambia, Kenya, Ghana e la stessa Etiopia. Tutti i responsabili di queste organizzazioni affermano che le varietà di colture locali sono fondamentali per aumentare la sicurezza alimentare messa in pericolo dai cambiamenti climatici. E quì sta una sorta di beffa nei confronti della “Banca dell’Apocalisse”.
Proprio negli USA anche la popolazione nativa dei Cheroke ha fatto la stessa cosa fondando la Cherokee Nation Seed Bank che ora conserva più di 100 diversi tipi di semi e ne distribuisce circa 10.000 confezioni all’anno ai coltivatori statunitensi. Nel febbraio 2020, la nazione Cherokee è diventata la prima nazione indigena degli Stati Uniti a depositare i suoi semi tradizionali nel “malconcio” deposito delle Svalbard. Ma al contrario di questo faraonico progetto, con le loro banche del seme i Cheroke e le popolazioni native in generale hanno dimostrato di essere anche l’unica e vera chiave risolutiva per preservare il patrimonio culturale e colturale dei rispettivi gruppi indigeni. Uno schiaffo in faccia alla globalizzazione della povertà nutrizionale e produttiva voluta dalle multinazionali del settore: ovvero, gli sponsor del Svalbard Global Seed Vault.