Anche in questo caso parliamo di un’utopia concreta che può essere attuata già da domani, se c’è la volontà politica di realizzarla. Basta avere una buona esperienza pratica, essere ferrati sull’argomento e saper fare un po’ di calcoli.
I terreni utilizzati per l’agricoltura a livello mondiale rappresentano attualmente circa 1/3 delle terre emerse e corrispondono a quasi 5 miliardi di ettari (simbolo ha). Di questi, circa 3,4 miliardi sono destinati al pascolo e agli alpeggi, mentre i terreni arabili e coltivabili corrispondono a 1,4 miliardi. La restante quota, circa 140 milioni di ettari, è dedicata a coltivazioni permanenti: frutteti, vigneti, palmizi, coltivazioni di cacao, caffè, tè e altro. Per l’obiettivo di questo approfondimento, già questi dati ci debbono far riflettere molto. Perché i documenti della FAO (Food and Agriculture Organization), l’organizzazione dell’ONU per l’agricoltura e l’alimentazione, l’estensione totale delle terre coltivate (agricoltura pluviale + agricoltura irrigua) è rimasta sostanzialmente invariata rispetto a 60 anni fa, malgrado i grandi disboscamenti e dissodamenti di foreste equatoriali effettuati in tutti questi anni, soprattutto in Brasile, Africa e Indonesia. Un disboscamento che sta continuando a viaggiare alla velocità folle di 12-13 milioni di ha l’anno, se si tiene conto che l’Italia, ad esempio, ha una superficie complessiva di circa 30 milioni di ettari.
Il fatto che la quantità dei terreni arabili e coltivabili sia rimasta pressoché costante in tutti questi anni, malgrado i disastri appena evidenziati, ci da la misura dell’impatto devastante che sta producendo l’erosione della capacità produttiva dei suoli: per desertificazione, salinizzazione delle aree irrigate meccanicamente, perdita progressiva di humus e di sostanza organica, urbanizzazione e impermeabilizzazione, ecc. Il tutto aggravato e causato anche dall’uso intensivo dei fertilizzanti chimici inorganici (in particolare quelli dell’azoto sintetico), dei pesticidi, dei diserbanti e di tutti quei prodotti di sintesi che sostanzialmente stanno avvelenando gli stessi suoli. In tutto questo, è ormai un dato di fatto che proprio l’agricoltura è diventata la maggiore fonte di emissioni di gas serra sul nostro pianeta. Avendo quindi un limite le superfici delle terre emerse che si potranno mettere a coltura in futuro, sembra abbastanza ovvio che non si può andare avanti per questa strada e con questo passo.
Tanto più che, come abbiamo dimostrato con questi due articoli, C’è già il cibo per sfamare tutti gli abitanti della terra, ma nessuno lo dice e La terra basta per tutti, a livello mondiale si è già raggiunta l’autosufficienza alimentare da molti anni. Si tratta ora, aldilà della necessaria equità nella distribuzione delle derrate alimentari prodotte a livello mondiale e a parità di resa produttiva, rendere sostenibili queste produzioni e possibilmente permettere loro, allo stesso tempo, di darci una mano per arrestare e invertire l’emergenza dei cambiamenti climatici in corso.
Come? Riscoprendo tecniche produttive millenarie ed aggiornandole con le più moderne conoscenze scientifiche che si basano essenzialmente su tre pilastri: la fissazione biologica dell’azoto atmosferico con le leguminose (cosiddetta concimazione verde), il riciclaggio e riutilizzo della sostanza organica arrivata a fine ciclo alimentare (tipo quella proveniente dalla raccolta differenziata dei rifiuti urbani), il recupero progressivo della biodiversità spontanea dei suoli con opportune tecniche colturali.
Il passaggio fondamentale di questa autentica “conversione” (intesa anche in senso spirituale) è la concimazione verde, detta anche sovescio, della quale l’autore di questo articolo ha un’esperienza diretta ormai trentennale. Si tratta in pratica di interrare piante erbacee (soprattutto leguminose) appositamente coltivate allo scopo di arricchire il terreno delle sostanze concimanti da queste acquisite con la crescita: in particolare l’azoto atmosferico che viene accumulato nelle radici sotto forma di azoto organico. E’ una tecnica a basso costo e molto efficace per ridurre al minimo l’uso dei fertilizzanti (ovviamente parliamo solo di quelli ammessi in agricoltura biologica), per salvaguardare la produttività del suolo e per recuperarne progressivamente la fertilità. Prendendo a riferimento la coltivazione di un ettaro di grano, per effettuare questo approfondimento abbiamo riscontrato il prezzo medio ultimo del fertilizzante chimico più usato in Italia per la concimazione azotata di base e di copertura (urea agricola granulare al 46%) che attualmente è fissato in circa 315 euro a tonnellata. Con questo concime di sintesi, tenendo conto delle perdite di rendimento (es. processo di liscivazione), in media si ottengono 350 unità di azoto per ogni distribuzione sul terreno. Questo fertilizzante può essere utilizzato dalla coltura solo in presenza di acqua che però non deve essere né troppa, né troppo poca. Per ottenere una buona resa di grano quindi, tenendo conto della caratteristiche ambientali e climatiche delle varie regioni italiane, mediamente occorrono 5 tonnellate di urea ad ettaro, con un costo che supera i 1.500 euro a stagione.
In agricoltura biologica invece lo stesso risultato di 350-400 unità di azoto per ettaro si può ottenere con la combinazione di due leguminose, il favino la veccia vellutata, i cui semi sul mercato italiano attualmente si attestano tra i 350-400 euro a tonnellata. Queste leguminose coprono molto velocemente il suolo e per questo sono molto competitive verso le erbe infestanti alle quali sottraggono luce, acqua e principi nutritivi. Inoltre sono molto gradite ai lombrichi e ai microbi del terreno grazie alla ricchezza di azoto fissato nelle radici dai microrganismi azotofissatori.
Queste colture vanno sfalciate quando sono all’apice della crescita, cioè quando stanno producendo i fiori) ma prima che vadano in seme per non consumare proprio l’azoto accumulato. Una volta essiccata la sostanza organica sfalciata va poi interrata insieme alle radici ad una profondità che non supera i 30 cm. In questo modo otterremo lo stesso risultato fertilizzante iniziale, ma ad un costo inferiore rispetto all’urea: per ottenere 350-400 unità di azoto per ettaro, bastano 2 tonnellate di seme di favino e altrettante di veccia. Per mantenere e recuperare la capacità produttiva riacquisita, bisognerà poi apportare e restituire sistematicamente ai terreni la sostanza organica recuperata e ben compostata nei vari cicli di raccolta (anche industriali). La stessa cosa infine si può fare con tutti i pesticidi oggi in commercio, ricorrendo agli altri principi che sono alla base dell’agricoltura biologica e biodinamica: cioè utilizzando gli antagonisti naturali di ogni patogeno e programmando le rotazioni agli avvicendamenti più opportuni per le colture. In poche parole: ripristinando la biodiversità naturale dei nostri terreni.
Ma oltre a quelli economici, da questa “conversione” in più avremo anche importanti vantaggi agronomici ed ecologici di cui il nostro pianeta, proprio in questo momento, ha un enorme bisogno. Ne riparleremo in un prossimo articolo su questo sito dove dimostreremo che abbinando le concimazioni verdi caratteristiche dell’agricoltura biologica con un’altra antica conoscenza (la produzione di carbone vegetale con piante autorigeneranti) possiamo anche contribuire ad una veloce diminuzione dei gas serra presenti nell’atmosfera.
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