Solo nel 3,8% dei terreni coltivati nel mondo oggi vengono utilizzati gli Organismi Geneticamente Modificati (OGM). Ce l’hanno messa tutta le multinazionali del settore, ma ormai questa tecnica per ottenere prodotti agricoli su larga scala è da considerarsi completamente fallita. Ed è un fallimento che avrà ampie ripercussioni anche in tanti altri settori dell’economia, soprattutto in questo periodo di pandemia, perché rappresenterà per sempre l’esempio di come la conoscenza millenaria dei popoli non è stata piegata da una presunta scienza e dal potere che la controlla, che ha pensato di poter sottomettere la Natura ai propri interessi. Di tutte le produzioni agricole realizzate ogni anno nel mondo (includendo quindi anche quelli “no food”), oltre alla percentuale molto bassa di impiego degli OGM evidenziata in premessa, sta anche calando il già esiguo numero di paesi che ne ammettono sia la coltivazione che la commercializzazione (in altri sono ammessi solo per scopi scientifici): erano 29 nel 2010 e oggi sono scesi a 24. Non solo. La stragrande maggioranza dei terreni coltivati con gli OGM (l’85%) si trova in appena quattro paesi del Nord e Sud America (USA, Canada, Brasile e Argentina) e sono dedicati quasi interamente (99%) alla coltivazione di appena quattro colture: soia, mais, cotone e colza. Le prime due vengono destinate in gran parte all’alimentazione di animali da carne e da latte (Alimenti per i bambini nutrienti e non inquinanti) . Ma a determinare questo fallimento non è stata esclusivamente la crescente diffidenza dei consumatori, che pure è stata decisiva, in particolare per quanto riguarda l’obbligo di evidenziare in etichetta l’eventuale presenza di OGM negli alimenti. A pesare sono state anche una serie di sconfitte che i fautori dei semi creati in laboratorio hanno subito in questi ultimi anni a vari livelli: in primo luogo in quelli giudiziari, sanitari e agronomici.
La più clamorosa è stata quella dei patteggiamenti miliardari raggiunti dalla Bayer (multinazionale tedesca che ha acquistato due anni fa l’americana Monsanto) per risolvere quasi centomila cause legali intentate da persone che si erano ammalate di una particolare forma di cancro, il linfoma non Hodgkin, dopo aver usato continuativamente il Roundup: il diserbante per disseccamento più usato al mondo a base di glifosato e prodotto per decenni proprio dalla Monsanto. La vicenda non è ancora conclusa perché di tutte le cause intentate per il risarcimento negli Stati Uniti, circa 25mila non hanno accettato la transazione. E visto che con il patteggiamento la Bayer ha indirettamente ma implicitamente ammesso la correlazione tra l’uso del Roundup e la malattia, è molto probabile sua la soccombenza anche in quest’altra fase giudiziaria. Ma la cosa ancora più importante, quasi totalmente occultata all’opinione pubblica, sta nel fatto che i primi OGM sono stati brevettati dalla stessa Monsanto proprio per resistere al Roundup. Ne abbiamo parlato dettagliatamente in quest’altro articolo pubblicato su questo sito: Il monopolio del mercato mondiale dell’agro-chimica. Ora, visto che è stato ammesso di fatto che questo prodotto a base di glifosato è cancerogeno, è logico che altri pesanti dubbi sul piano sanitario sorgono sui semi realizzati appositamente in laboratorio per resistergli. In altre parole: per resistere ad un cancerogeno la pianta modificata geneticamente deve in qualche modo averlo assimilato e metabolizzato, cosa che evidentemente la stessa pianta non sarebbe riuscita a fare se non fosse stata modificata.
E’ altrettanto evidente quindi che questi processi assimilativi e metabolici concorrano alla produzione del raccolto che si intende ottenere dalla coltivazione. Sta di fatto che la maggior parte degli OGM utilizzati al mondo sono tolleranti agli erbicidi e sono non molto diversi, anzi, sono praticamente uguali per ogni tipo di coltura (cambia solo il nome), al loro “progenitore”: il Mais Roundup Ready (RR) della Monsanto. I paesi dell’Unione Europea, a maggioranza, nel 2017, hanno rinnovato l’autorizzazione all’uso del glifosato ancora per 5 anni e bisognerà vedere chi avrà il coraggio, nel novembre del 2022, per concedere un’ulteriore autorizzazione a questo prodotto. Ma questo è solo l’inizio dei guai della tecnica OGM, perché ben presto potrebbero arrivare sentenze ancora più pesanti.
Altre ricerche infatti, soprattutto australiane, hanno dimostrato la contaminazione di colture non OGM appartenenti alla stessa specie (problema ormai globale) e per questo alcuni dei maggiori importatori di grano e mais al mondo, quali la Cina e la Corea del Sud, hanno iniziato a respingere grandi quantità di prodotto proprio a causa della contaminazione. Si è così rivelato del tutto impraticabile il “principio di segregazione” inventato dalle stesse multinazionali degli OGM (che grosso modo corrisponde a quello attuato in passato con gli esseri umani di diverso colore) per dimostrare la possibile coesistenza con coltivazioni non OGM, soprattutto con le aziende biologiche. Ma è successo l’esatto contrario. Emblematica è stata l’estenuante causa giudiziaria in Australia tra un agricoltore biologico di colza (Marsh) e un agricoltore OGM (Baxter) al quale è stata direttamente la Monsanto a pagare le spese legali. La colza biologica era stata contaminata dagli OGM del vicino e per questo era stata ritirata la certificazione all’azienda di Marsh (nella foto qui a sinistra). La contaminazione era certa e documentata, ma tutti i tribunali chiamati in causa non sono stati in grado di stabilire chi l’avesse provocata. La contaminazione quindi, benché sanzionabile in base alla legge, è rimasta impunita per una vistosissima carenza normativa che nessuno, neanche un’inchiesta del Parlamento australiano, ha saputo affrontare e risolvere. Tutti gli anni passati per definire la controversia hanno portato poi alla condanna dell’agricoltore biologico con spese che hanno superato i 2 miliardi di dollari australiani (circa 1,25 milioni di euro). Un fatto che è stato definito bene con una sola parola: “agghiacciante”. Così però il problema della contaminazione è diventato prima di tutto un problema sociale, prima ancora che economico e agricolo.
In ultimo, ma non in ordine di importanza, c’è anche un altro problema: l’effetto resistenza sulle erbe infestanti creato dall’uso sistematico degli erbicidi per attuare le coltivazioni OGM. In Tasmania dopo esperimenti realizzati due decenni prima con organismi modificati di colza è stata riscontrata la persistenza e la maggiore invasività di un’erba spontanea locale del tutto simile alla colza stessa, ma molto più aggressiva di quella in coltivazione.
Tutto questo sta portando l’intero settore agro-alimentare mondiale ad etichettare i loro prodotti come “OGM free” o comunque ad evitare l’uso di produzioni geneticamente modificate per non essere costretti ad indicarli sulle etichette (in Europa è obbligatorio se superano la soglia del 0,9% del totale). Male sta andando la loro competitività sul mercato, che sta perdendo colpi persino nei confronti dei prodotti biologici e che invece sono in netta crescita in tutto il mondo. E se poi si tiene conto che quasi tutte le colture OGM sono “adattate” ad un erbicida simile e quasi uguale al glifosato, si comprende bene che la tecnica di produrre semi in laboratorio per piegare la Natura agli interessi delle multinazionali è destinata al fallimento. Con buona pace degli “scienziati” che non ne vogliono sapere di imparare quali sono le conoscenze millenarie che ci hanno lasciato in eredità le passate generazioni a favore di quelle future.
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