Quella di accumulare punti premio con le “card” quando facciamo spesa al supermercato, compriamo un computer, acquistiamo un cellulare o un libro on-line è ormai un’abitudine consolidata in tutto il mondo. Spesso è stata utilizzata per campagne promozionali ed oggi è la più diffusa strategia commerciale attuata per “fidelizzare” i clienti. La strategia, ovviamente, serve ad incrementare i consumi di prodotti e le cose che poi dovranno diventare il prima possibile dei rifiuti, in modo da imporre la necessità di nuovi acquisti. Non a caso è stata applica su larga scala anche per vendere i prodotti realizzati con già incorporata la cosiddetta “obsolescenza programmata” (leggi anche su questo sito: Fatti per rompersi); che poi è sostanzialmente il concetto base di quell’economia lineare, nota anche come economia “usa e getta”, che è ormai arrivata al capolinea.
Ma cosa succederebbe invece se quei punti fossero attribuiti ai prodotti che durano a lungo, si rompono raramente e comunque sono riparabili? La risposta a questa domanda è ormai diventata non più rinviabile dopo la redazione del Rapporto 2020, realizzato dal Global E-waste Monitor delle Nazioni Unite e pubblicato recentemente. Lo scorso anno nel mondo sono state prodotte 53,6 milioni di tonnellate di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche (RAEE), con un aumento del 21% negli ultimi cinque anni. Si prevede che entro il 2030 questi rifiuti arriveranno a 74 milioni di tonnellate annue, con un raddoppio rispetto agli ultimi 16 anni. Si tratta del tipo di rifiuti in più rapida crescita al mondo, persino più di quelli alimentari, visto il tasso di incremento a livello mondiale e che sempre più spesso vengono costruiti senza prevederne un qualsiasi tipo di riparazione, la sostituzione e/o l’adeguamento tecnologico. A livello continentale, quasi la metà di questo incremento è stato registrato in Asia (con un +46,5%), seguita dalle Americhe (+24,4%), dall’Europa (+22,4%), dall’Africa (+5,4) e dall’Oceania (+1,3%). Per lo scorso anno in testa a questa particolare classifica comunque ci sono, a sorpresa, la Norvegia con 26 kg pro-capite l’anno e il Regno Unito con 23,9 kg a testa. Il Rapporto inoltre sottolinea che nel 2019 solo il 17,4% di questi rifiuti è stato raccolto e riciclato. Questo significa che continua a livello globale un gigantesco spreco dei preziosi materiali con cui sono stati realizzati questi prodotti: oro, argento, rame, platino, terre rare e altri materiali che invece di essere recuperati finiscono in discarica o negli inceneritori.
Il danno generato, calcolato in forma cautelativa dal Rapporto, è stato stimato in 57 miliardi di dollari USA l’anno. Un danno che continuerà a crescere proprio a causa del trend di consumo collegato all’obsolescenza programmata, anche se già questa somma è superiore al prodotto interno lordo della maggior parte dei paesi del terzo e quarto mondo.
Per dare un’idea della dimensione del problema, il documento delle Nazioni Unite porta un esempio molto eloquente: sostanzialmente si tratta di un peso equivalente a 350 navi da crociera delle dimensioni della Queen Mary 2, che se allineate tutte insieme formerebbero una linea lunga 125 km. Ma anche sotto l’aspetto sanitario e ambientale questo spreco comporta dei rischi non più tollerabili. Tutti i rifiuti elettronici, se abbandonati o comunque smaltiti in discariche e inceneritori, rappresentano un grave pericolo e un potenziale rischio perché contengono additivi tossici o sostanze molto pericolose: arsenico, cadmio, piombo e mercurio. Quest’ultimo in particolare, come è noto, comporta seri rischi per il cervello umano e il sistema di coordinamento motorio dei muscoli.
Dunque non c’è altro tempo da perdere per fermare questa catastrofe economica ed ecologica e per questo molti paesi stanno pensando a dei sistemi di punteggi di “riparabilità” sui beni di consumo, introdotti specificamente per la lotta contro l’obsolescenza programmata e pianificata dal sistema industriale “usa e getta”.
Il “Diritto alla Riparazione” è stato introdotto proprio l’anno scorso dall’Unione Europea e a partire dal 2021 le aziende degli Stati membri dovranno iniziare a rendere gli elettrodomestici più duraturi e fornire pezzi di ricambio per le macchine fino a 10 anni. Per il momento solo la Francia risulta che abbia messo in campo misure in tal senso. Con un apposito programma (che determinerà un punteggio da 1 a 10) verranno costretti i produttori ad etichettare in questo modo gli smartphone, i telefoni fissi e portatili, i frigoriferi, i tosaerba e tanti altri articoli, proprio per incoraggiare acquisti più rispettosi dell’ambiente e rendere più facile ed economicamente vantaggioso la produzione di beni riutilizzabili e riparabili. Sarà vietata l’ulteriore produzione di oggetti che sono stati progettati con il concetto della obsolescenza programmata e incorporata. Molto interessante è anche la prospettiva di creare nuovi posti di lavoro qualificati che, dopo la pandemia del Covid 19 e con il passaggio all’economia circolare, sicuramente saranno molto ricercati. Non a caso su Internet sta circolando una lettera firmata da più di cento professori universitari che chiedono le riforme per introdurre il Diritto alla Riparazione in tutte le legislazioni del mondo. Un diritto che ci dovrebbe dare la possibilità, a ben pensarci, che le cose che acquistiamo durino più a lungo possibile e non solo quanto ha stabilito il suo produttore. Un diritto, in sostanza, che ci consente di “fidelizzarci” alle cose che si rompono di meno e che si possono riparare.